Il 31 dicembre del 2010, cioè 10 anni fa, la lira turca chiudeva l’ultima seduta dell’anno a un tasso di cambio di 1,54 contro il dollaro. Oggi, scambia a 7,78. In un decennio, ha perso l’80% del suo valore. Dal 2011 in poi, infatti, si è rafforzata solamente nel corso del 2012, mentre per ben 7 anni ha registrato crolli superiori al 10% e per due volte, addirittura, al 20%. Di preciso, cos’è successo? Tutto ruota attorno alla figura del presidente Recep Tayyip Erdogan, alla guida della Turchia sin dal 2002 come premier prima e come presidente della repubblica dal 2014.

A capo del partito islamico-conservatore Akp, l’ex sindaco di Istanbul, a suo tempo arrestato per propaganda islamista, nel suo primo decennio al governo riformò profondamente la Turchia, liberalizzando l’economia, aprendo ufficialmente il negoziato per l’ingresso nell’Unione Europea e sostenendo la crescita del ceto medio. Il benessere si diffonde tra la popolazione, l’inflazione viene contenuta e gli standard di vita dei cittadini turchi si avvicinano a rapidi passi a quelli medi occidentali.

Lira turca a -25% quest’anno, il disastro di Erdogan è geopolitico ed economico

Dopo avere consolidato il potere, da leader stimato e ammirato nell’Occidente per i suoi successi in politica economica ed estera, Erdogan si trasforma. Diventa sempre più autoritario, inizia a sfilarsi da Europa e USA e a perseguire mire espansionistiche nel mondo mussulmano. Non tollera alcun dissenso interno, meno che mai che qualcuno possa frenare i tassi di crescita dell’economia, necessari per continuare ad alimentare la sua immagine di premier capace di creare ricchezza. Tra l’altro, parte rilevante del suo elettorato è composto dagli imprenditori del comparto edile, i quali soffrono gli alti tassi d’interesse e hanno bisogno di prestiti continui per finanziare gli investimenti nel boom immobiliare.

La repressione di proteste apparentemente marginali nell’estate del 2013, indette da un gruppo di ambientalisti contrari alla rimozione di un parco per far posto a un’ennesima nuova costruzione, segna uno spartiacque nella vita pubblica di Erdogan.

I governi occidentali si fidano sempre meno di lui e si mostrano titubanti nel coinvolgerlo nei dossier internazionali. Gli investitori prendono nota e alla fine di agosto del 2013, già la lira turca oltrepassa il cambio di 2 contro il dollaro. Ma la crisi conclamata arriverà tre anni più tardi, per l’esattezza alla metà di luglio del 2016, quando un tentato golpe militare dai contorni tutt’ora misteriosi punta a rovesciare Erdogan. Dopo poche ore, la sedizione viene repressa e il capo dello stato avvia una dura campagna di repressione contro ogni forma di opposizione mediatica e politica al suo governo. La lira turca scambia a oltre 3 contro il dollaro.

Da una crisi finanziaria all’altra

Ma la situazione sfugge di mano dalla primavera del 2018. L’indebolimento del cambio accelera l’inflazione sopra il 10% e la banca centrale cerca di reagire aumentando il costo del denaro. Intanto, la Casa Bianca chiede il rilascio di un pastore evangelico americano, detenuto da due anni con l’accusa di terrorismo. Il clima con Washington s’infiamma, i capitali defluiscono copiosi. Niente da fare per Erdogan, secondo cui gli alti tassi aumentano l’inflazione, deprimendo gli investimenti e, quindi, l’offerta di beni e servizi. Una teoria non convenzionale, che sfidando le leggi del mercato conduce a una spirale negativa inflazione-svalutazione-inflazione. Dopo qualche mese, il presidente si arrende e accetta che i tassi vengano alzati fino al 24%. La lira, che era arrivata a collassare fino a 6,67, torna a rafforzarsi e già a inizio dicembre scambiava a 5,25. Ma la tregua con gli investitori dura poco. Nel corso dell’estate 2019, Erdogan licenzia il governatore centrale e lo sostituisce con il vice per ottenere una politica monetaria meno restrittiva.

Il cambio torna a indebolirsi, l’inflazione riprende a salire e i tassi d’interesse reali diventano profondamente negativi.

Nel frattempo, arriva il Covid. Soffrono un po’ tutte le valute emergenti, ma la lira turca arriva a crollare del 30%. Anziché sostenere i timidi sforzi della banca centrale per frenare l’inflazione, Erdogan minaccia di assumerne il controllo diretto nel caso di rialzo dei tassi. Fino agli inizi di novembre, quando il cambio collasso a oltre 8 contro il dollaro e induce il presidente a sostituire il governatore con un suo ex ministro delle Finanze per segnalare ai mercati la volontà di combattere seriamente l’inflazione e difendere la lira. Si dimette subito dopo il genero Berat Albayrak da ministro dell’Economia. E la lira si riprende dai minimi storici di circa il 10%. La prima mossa del nuovo governatore è stata di alzare i tassi di 475 punti base al 15%. Non basta. Probabile che tra una settimana li alzerà ancora per fronteggiare un’inflazione accelerata a novembre al 14%.

I trader restano divisi tra quanti sperano che il nuovo corso conduca a un 2021 di deciso recupero del cambio, magari fin sotto 7 contro il dollaro, e quanti si mostrano scettici sul reale cambio di passo di Erdogan. Peraltro, ieri sono arrivate le sanzioni USA contro Ankara per gli acquisti di missili S-400 dalla Russia. La lira ha guadagnato l’1%, poiché il mercato aveva tenuto sanzioni peggiori, cioè contro l’economia turca, mentre le misure di Washington per ora colpiscono solo i vertici degli organismi militari. Tra tensioni geopolitiche (c’è l’incognita della presidenza Biden) ed erraticità della politica monetaria, a causa delle intrusioni di Erdogan nella gestione della banca centrale, nessuno può dire con certezza dove andrà la lira l’anno prossimo. La lezione del 2018 non era stata capita fino a poche settimane fa. Il timore è che Erdogan finga di accettarla fino a quando la stretta monetaria non impatterà negativamente sull’economia.

E allora si ricomincerebbe d’accapo, con banca centrale a barcamenarsi tra minacce politiche e fuga dei capitali, riuscendo a scontentare tutti.

Erdogan si converte alla realtà, accetta il rialzo dei tassi e la lira turca vola

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