Non si fa che parlare ogni giorno di “fake news”, ovvero di notizie false, la quasi totalità delle quali corre su internet, dove non esistono di fatto più filtri tra chi scrive e pubblica un articolo e chi legge. Parliamo di notizie destituite di ogni argomento, ma che al grande pubblico appaiono credibili, tanto da essere condivise e commentate spesso anche migliaia di volte, divenendo virali, vuoi per gioco, vuoi perché in tanto ci credono davvero. I mezzi attraverso cui si diffondono sono solitamente i social.

Facebook è uno di questi, data la sua enorme popolarità. Ben 2 miliardi di persone al mondo hanno oggi un profilo e ciò rappresenta uno strumento ideale per veicolare anche messaggi che non hanno altro scopo se non di inquinare il dibattito pubblico e/o di fare soldi il più in fretta possibile.

Il fenomeno coinvolge tutto il mondo. Tale Paul Horner, pochi giorno dopo le elezioni presidenziali USA del 2016, rivelò al Washington Post di essere arrivato a guadagnare anche 10.000 dollari al giorno, scrivendo notizie del tutto false e pubblicandole sul web. Comico e scrittore, egli sostenne in quell’occasione di essersi rivelato determinante per la vittoria di Donald Trump l’8 novembre di quell’anno. Pochi mesi dopo, a soli 38 anni l’uomo venne trovato morto nel suo letto, pare per un sovradosaggio di farmaci. Il mistero sul suo decesso, tuttavia, non fa che alimentare quella diffidenza dei lettori verso “il sistema”, che è esattamente ciò di cui si nutre l’industria delle fake news.

Facebook combatte le fake news, ecco l’annuncio sul social

In Italia, sono numerosi i siti di falsa informazione, che spesso traggono in inganno l’utente con nomi molto simili a quelli di quotidiani nazionali famosi. E così, a uno sguardo disattento rischiamo di confondere Il Corriere della Sera con il corrieredellapera, oppure Il Messaggero con il massaggero, Il Fatto Quotidiano con ilfattoquotidaino.

Storia a sé fa, invece, il satirico Lercio.it, che più che pubblicare bufale, si occupa di trasformare in chiave comica fatti generalmente veri.

Come si finanzia un sito di bufale

Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Su internet, a meno che un sito non richieda l’iscrizione a pagamento o che non venga finanziato da terzi, chi scrive punta ai clic dei lettori. Più persone aprono il link, leggono e condividono il pezzo, più i pubblicitari pagheranno. In assenza di contratti con una qualche agenzia di pubblicità, ci pensa Google AdSense a remunerare gli articoli con l’inserimento di banner nel corpo del testo. Chi vi clicca sopra, sta finanziando di fatto il sito, che si approprierà di parte dei guadagni generati dalla pubblicità. Le fake news si prestano benissimo allo scopo: con titoli sempre forti, se non sguaiati, puntano a colpire l’immaginario di chi legge, facendo leva spesso sull’indignazione, la solidarietà o la meraviglia per la portata della (falsa) notizia.

E così, nei mesi scorsi abbiamo appreso che la sorella della ex presidente della Camera, Laura Boldrini, gestirebbe decine di cooperative per migranti, lucrando una quantità incredibile di denaro al mese. Peccato che la stessa Boldrini abbia non solo smentito che sia vero, ma di non avere nemmeno più una sorella, morta tempo fa. E qua e là in rete spuntano parenti di politici, senza titolo di studio e che sarebbero riusciti ora ad entrare in Parlamento come funzionario, ora nel cda di una qualche partecipata, etc., incassando stipendi a tanti zeri. Il più delle volte, le immagini di questi articoli sono palesemente ritoccate, come un certo “Gennarino Di Maio”, cugino del più noto Luigi, che assunto al Senato come portaborse guadagnerebbe la bellezza di 23.000 euro al mese.

I meno sprovveduti capirebbero subito che si tratti di una burla: in primis, perché un portaborse non può mai e poi mai prendere una cifra così astronomica; secondariamente, perché la foto del presunto cugino non è altro che chiaramente quella ritoccata del leader pentastellato.

Ora, il problema delle fake news consiste nel rischio di inquinare il dibattito pubblico, ingenerando tra l’opinione pubblica meno istruita e/o avvertita un senso di indignazione per fatti inesistenti o volutamente esagerati e manipolati. E così, non solo si possono anche perseguire obiettivi politici o di marketing nel cercare di distruggere un avversario o un concorrente, si fanno anche tanti soldi e con costi praticamente azzerati, trattandosi di notizie che non richiedono alcuno supporto documentale o ricerca per essere scritte, bensì la sola fantasia. Si è scoperto, ad esempio, che vere e proprie società con sede in Russia avrebbero agito in occasione di diversi appuntamenti elettorali all’estero, specie elezioni USA 2016 e referendum sulla Brexit, “trollando” i post di candidati come Hillary Clinton, al solo fine di creare disturbo.

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Il rimedio possibile contro le bufale

Possibile arrestare questo business, che minaccerebbe la stessa essenza della convivenza pacifica e della democrazia? Da lettori, oltre che prestare maggiore attenzione alle fonti, dovremmo evitare di postare fake news anche solo per commentarli con tono scherzoso con gli amici. La condivisione costituisce il presupposto per la viralità di una bufala, che così genera clic e denaro. Molti degli utenti la leggeranno per quella che è, ossia una non notizia, ma una parte la riterrà vera. Si innesca così un circolo vizioso, per cui il denaro alimenta un’industria delle bufale, che a sua volta diffonde tra il pubblico false notizie.

Per fortuna, la stessa fonte dell’industria delle fake news ne rappresenta la minaccia. I pubblicitari, se è vero che lucrano dalle bufale su internet, devono prestare molta attenzione a non associare l’immagine di un prodotto o servizio a notizie palesemente false o a contenuti estremisti, di istigazione all’odio, rischiano altrimenti di finire nel mirino dell’opinione pubblica, ovvero di almeno parte della clientela consolidata e/o potenziale.

Lo scorso anno, ad esempio, molte multinazionali sospesero temporaneamente la collaborazione con YouTube, quando scoprirono che le loro inserzioni pubblicitarie erano finite su siti chiacchierati, persino pedopornografici. Il problema è che tramite AdSense, ad esempio, un marchio non entra mai in contatto diretto con la fonte di un contenuto, bensì tramite Google, che come nel caso di Facebook fa da tramite tra domanda e offerta di pubblicità.

Proprio i colossi online sono sotto pressione da parte dei governi, ma anche delle multinazionali, affinché adottino sistemi di monitoraggio più appropriati per evitare che siti inopportuni finiscano per essere finanziati dai loro investimenti. Difficile tradurre i buoni propositi in fatti concreti, anche perché non tutti avvertono la necessità di dissociare il proprio nome dalle fake news. Per le realtà minori, conta spesso più la voglia di farsi conoscere e di arrivare all’utente, arrivando con clic acchiappati anche entrando in articoli del tutto privi di contenuti veritieri.

Fake news e siti dell’odio mettono a dura prova la pubblicità online

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