Nuovi massimi storici per i prezzi dei Bitcoin stamattina, saliti sopra 28.300 dollari. Segnano una crescita di oltre il 295% quest’anno, praticamente quadruplicando il loro valore. In termini di capitalizzazione, hanno superato i 525 miliardi di dollari. Il 2020 che si conclude domani è un anno da incorniciare per la “criptovaluta” più importante e diffusa nel mondo, anche perché sembra avere superato l’esame di maturità atteso da anni, mostrandosi meno volatile, grazie anche al crescente interesse che stanno nutrendo gli esponenti della finanza tradizionale.

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Ma il “mining” è costoso. Estrarre una unità di Bitcoin richiede non solo elevate competenze informatiche, ma anche notevoli consumi di energia. Non è un caso che queste operazioni negli anni siano divenute popolari in quei paesi in cui la bolletta elettrica si paga poco e niente, in quanto sussidiata dallo stato. Un esempio lampante è il Venezuela, dove il regime di Nicolas Maduro è passato dal reprimere il business ad aprire un centro militare apposito per il “mining”.

Ad ogni modo, pur non essendo del tutto possibile stimare i consumi globali necessari per le estrazioni dei Bitcoin, il Centro di Finanza Alternativa dell’Università di Cambridge ci ha provato e ha trovato che essi ammonterebbero a 92,8 terawatt/ore annualizzate. Una quantità immensa, perché corrisponderebbe a poco più di quanto consumato in un anno da tutto il Pakistan, una nazione da 200 milioni di abitanti. E secondo lo studio, questi consumi sarebbero in grado di generare energia per tutti i bollitori di tea nel Regno Unito per 21 anni.

Bollette scandinave super convenienti

Tanta energia e tanto potenziale inquinamento. I due terzi della produzione di Bitcoin si hanno, infatti, in Cina, paese in cui circa la metà dell’energia è prodotta grazie al carbone. A seguire troviamo Kazakistan e Canada, mentre gli USA incidono solamente per il 7%.

Probabile che sulle percentuali di ciascun paese influiscano proprio i prezzi delle bollette: se devi spendere molto per l’energia, i margini di profitto si abbassano e il “mining” diventa meno conveniente. Dunque, avremmo un problema: i Bitcoin sono più popolari nelle aree del pianeta più inquinanti.

Per fortuna, già si nota un possibile rimedio: la Scandinavia. Questo è stato il più piovoso degli ultimi 20 anni nel Nord Europa, un fatto che ha consentito alle centrali idroelettriche di generare energia a basso costo. Per lunghi periodi del 2020, i prezzi hanno rasentato lo zero e hanno permesso alla Scandinavia di godere di bollette della luce al costo di un terzo della Germania. La Norvegia risulta essere la più economica tra i 30 paesi aderenti all’Agenzia internazionale per l’energia e per la prima metà dell’anno le sue bollette per gli utenti non domestici sono state le meno costose di tutta Europa.

La Scandinavia genera energia tramite centrali idroelettriche, nucleari ed eoliche, cioè relativamente pulite, a basso impatto ambientale. Adesso che i costi di produzione sono crollati e che i prezzi dei Bitcoin sono esplosi, questa regione del mondo sta diventando un potenziale Eldorado per il business. Di fatto, chi ha estratto monete digitali qui ha quadruplicato i suoi profitti rispetto a pochi mesi prima. Per il pianeta, sarebbe un’ottima notizia: man mano che la Bitcoin-mania si diffonde, i consumi di energia richiesti aumentano e, però, di questo passo anche l’inquinamento globale. Tuttavia, la riduzione del peso della Cina a favore di regioni come il Nord Europa nel “mining” risolverebbe il problema alla radice. Per contro, con quotazioni così alte e intraviste in ulteriore salita resta possibile produrre anche in paesi con produzione di energia meno efficiente, cioè dai costi elevati e ad alto impatto ambientale. E fino a quando un barile di petrolio si comprerà per così poco, la migrazione del business da aree come la Cina sarà limitata.

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