Era il 19 gennaio del 2000 quando in Tunisia moriva Bettino Craxi. Per molti scomparve da latitante, per altri in auto-esilio. Il lessico in questi casi fa la differenza, perché riflette stati d’animo e visioni dei fatti contrapposti. Sta di fatto che per diverse ragioni possiamo considerare l’ex premier l’ultimo statista d’Italia. E anche sulla definizione di statista dobbiamo intenderci: non significa che le abbia fatte tutte giuste, anzi. Al di là di “Mani Pulite”, i limiti dell’azione politica di Craxi furono tanti e, per certi versi, dalle conseguenze terribili per l’Italia.

Anzitutto, partiamo dalla sua crono-storia politica: diventa leader del Partito Socialista Italiano nel 1976, quando il potere mediatico ed elettorale del Partito Comunista a sinistra sembrava totalizzante e incontrastato. In brevissimo tempo, riesce a trasformare il suo partito relativamente piccolo da forza subordinata al grande PCI a motore autonomo e anti-comunista della politica italiana. Per usare una sua celebre espressione, i fatti s’incaricarono di dargli ragione. Nel 1983, divenne presidente del Consiglio, il primo socialista nella storia repubblicana e secondo laico dopo Giovanni Spadolini, che si era dimesso dalla carica a fine ’82.

Craxi rimase a capo del governo per quattro anni, coabitando con la Democrazia Cristiana, così come con i partiti minori di PRI, PLI e PSDI nel famoso “pentapartito”. Fu un periodo prospero per l’economia italiana, captati nell’immaginario collettivo dalla “Milano da bere”. La classe media rialzava la testa dopo un lungo decennio di crisi. Gli Anni di Piombo erano alle spalle, nel Paese si respirava un’aria più rilassata, di ottimismo, di svecchiamento. Il monopolio della TV di stato era infranto dalle reti Fininvest di uno sconosciuto imprenditore dal nome Silvio Berlusconi. Come durante l’era Reagan negli USA, sotto il craxismo gli italiani erano tornati ad occuparsi delle loro vite, rifuggendo dalle ideologizzazioni di massa.

Gli anni d’oro del craxismo e tangentopoli

L’economia italiana si accingeva a diventare quarta potenza industriale nel mondo, un traguardo che non sarebbe più centrato dopo gli inizi degli anni Novanta. Parte del merito fu dovuto al crollo dell’inflazione: Craxi la trovò al 13% e la lasciò al 5%. Per contrastarla, combatté e vinse la battaglia contro la scala mobile. Va detto, però, che fu aiutato dal calo dei prezzi del petrolio, il cui boom negli anni Settanta aveva provocato il fenomeno della “stagflazione” in tutto l’Occidente.

Ma questa ricchezza diffusa e dilagante ebbe un grave peccato originale: avvenne a debito. Nel suo quadriennio al governo, Craxi portò il rapporto debito/PIL dal 69% all’89%. Prese in eredità un deficit quasi al 10% e lo lasciò sopra l’11%. Il saldo primario peggiorò, infatti, da -2,2% a -3,5%. Chi racconta che in quel periodo il debito esplose per via dei tassi d’interesse, mente. Ci fu una precisa volontà politica di fare spesa pubblica in deficit. Del resto, il governo era in mano ai socialisti, che con qualche decennio di ritardo cercarono di applicare in Italia la dottrina keynesiana, mentre già all’estero imperavano le politiche neo-liberiste di Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Il resto è cronaca giudiziaria. A inizio anni Novanta, Craxi e il suo PSI vengono travolti da tangentopoli. La caduta dell’ex premier fu rovinosa. Nell’opinione pubblica, complice una stampa agguerrita contro la sua persona per via dei suoi trascorsi anti-comunisti, egli fu identificato come il male assoluto all’origine di ogni sfacelo nazionale. Fu bersagliato dal lancio di monetine da parte di un gruppo di elettori del PDS (ex PCI), quando uscì dall’Hotel Raphael di Roma a bordo di un’auto di servizio. Convinto che si sarebbe celebrato contro di lui un processo politico, si rifugiò in Tunisia, paese con cui aveva stretto un’ottima intesa politica sotto l’allora dittatore Ben Alì.

Morì agli inizi del nuovo Millennio per complicazioni legate al diabete, malattia che scoprì di avere il giorno stesso in cui divenne segretario del PSI.

Craxi statista? Ecco le ragioni

Perché dovremmo considerare Craxi ancora oggi l’ultimo statista d’Italia? Non già per coprire i suoi numerosi errori, tra cui l’essersi circondato di una classe dirigente di uomini spregiudicati; la vera eredità politica dell’uomo è stata e resta il possesso di una visione con la quale guidare la Nazione. Dopo Craxi, la politica italiana praticamente moriva per lasciare spazio alla tecnocrazia. Le distinzioni tra destra e sinistra, energicamente amplificate dal bipolarismo ruotante attorno alla figura di Berlusconi, sono state fittizie. Craxi aveva in mente il posto che spettava all’Italia, a suo avviso, in Europa e nel mondo. Possiamo accusarlo ipocritamente di ogni nefandezza, ma chiunque deve riconoscergli capacità di visione e una leadership moderna. Prima di lui, i premier erano sempre figure semi-ignote agli elettori e quasi mai carismatiche, per non dire mai.

La tecnocrazia ha preso piede in Italia proprio per il collasso delle istituzioni guidate da uomini come Craxi. A sinistra s’invocano i tecnici per celare l’assenza di una visione dell’Italia. Destra e sinistra praticamente si azzerano dinnanzi a decisioni ragionieristiche e leader freddi senza alcun consenso popolare, ma attraverso i quali l’azione di governo può proseguire nelle fasi più delicate. Craxi non avrebbe mai accettato un’Italia ridotta al vincolo esterno, perché poneva la Politica al di sopra di ogni cosa. Con i suoi difetti anche caratteriali, ci consegnò una Nazione dignitosa e che nei fatti concorreva alla pari con le grandi potenze europee sul piano economico e della diplomazia. Oggi, giubiliamo per essere destinatari di prestiti e sussidi europei, similmente a una qualche economia sudamericana quando riceve aiuti dal Fondo Monetario Internazionale.

Non è questa l’idea d’Italia che Craxi aveva in mente. L’avrebbe combattuta con tutte le sue forze.

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