Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha firmato d’intesa con la collega al Lavoro, Elvira Calderone, il decreto per la rivalutazione degli assegni Inps nel 2024. In base ai dati Istat forniti al 7 novembre scorso, l’aumento delle pensioni per il 2024 sarà del 5,4%. Esso sarà pieno per gli importi fino a quattro volte il trattamento minimo, cioè fino alla cifra di circa 2.270 euro mensili. In questo caso, l’assegno salirà da gennaio fino a 122 euro al mese. Per gli assegni d’importo compreso tra quattro e cinque volte il minimo, la rivalutazione sarà del 90%, superiore all’85% fissato per quest’anno.

Invece, diminuirà ulteriormente dal 32% al 22% per gli assegni oltre dieci volte il minimo, cioè a partire da circa 5.672 euro al mese.

Sappiamo che l’aumento delle pensioni effettivo sarà noto solamente agli inizi dell’anno prossimo, quando conosceremo i dati sull’inflazione anche per i mesi di novembre e dicembre. Per ragioni organizzative, l’Inps deve iniziare ad effettuare il ricalcolo sin d’ora, così da farsi trovare pronta sin dal mese di gennaio. L’eventuale conguaglio verrebbe erogato nel gennaio del 2025, anche se negli ultimi due anni il governo Draghi prima e Meloni ora hanno optato per anticiparlo agli ultimi mesi dello stesso anno di riferimento, in modo da salvaguardare il potere di acquisto dei pensionati contro l’alta inflazione.

Aumento pensioni 2023-’24 limitato dal décalage

Il décalage fortemente inasprito dal governo Meloni sull’aumento delle pensioni è stato al centro di polemiche. Non solo le percentuali di rivalutazione all’inflazione sono state tagliate bruscamente per gli assegni medio-alti, ma oltretutto esse insistono sull’intero importo e non gradualmente come avveniva fino allo scorso anno con il sistema per scaglioni. Una soluzione draconiana, ma che si è resa necessaria per ridurre l’impatto già enorme che l’alta inflazione sta avendo sui conti dell’Inps.

Se quest’anno la spesa per le pensioni dovrebbe essere aumentata di una ventina di miliardi, dall’anno prossimo salirebbe ulteriormente di una quindicina di miliardi. Sono cifre da fare tremare i polsi allo stato. Vi ricordate quando raccontavano che l’inflazione avrebbe fatto bene ai conti pubblici? Tutte balle. In teoria, sarebbe così, almeno in una prima fase. Nei fatti, i benefici sono stati molto limitati e per un tempo brevissimo e il caso del maxi-aumento delle pensioni lo dimostra.

Allarme conti Inps con alta inflazione

Per l’Inps il livello d’inflazione sarebbe sostanzialmente indifferente se i contributi versati da lavoratori e imprese crescessero in linea con i maggiori esborsi. Tuttavia, non sta accadendo. E questo è un grosso guaio. In effetti, le retribuzioni stanno rimanendo ferme e solo negli ultimi mesi hanno iniziato a crescere molto lentamente. Questo significa che la massa dei contributi versati non si smuove granché, mentre l’ente è tenuto ad alzare gli importi degli assegni a ritmi che non si registravano in Italia da una trentina di anni.

E dire che l’occupazione è salita a livelli record, raggiungendo il 61,7% delle persone in età lavorativa (15-64 anni) e segnando un aumento assoluto di oltre mezzo milione in un anno. Non basta. E se i conti dell’Inps peggiorano, a dover mettere mano al portafogli sarà ancora una volta lo stato, cioè tutti noi contribuenti. Il sistema previdenziale non si regge da sole, ma ha bisogno di attingere alla fiscalità generale. A devastarne i conti sono i pensionati statali, mentre il settore privato registra un surplus. Anche per questo il governo vuole tagliare i futuri assegni di alcune categorie di dipendenti pubblici, che ad oggi sono stati calcolati con criteri molto vantaggiosi. Mettetela come volete, ma la spesa per le pensioni non può continuare a correre così.

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