Ci sono buone notizie dal mercato del lavoro per il mese di agosto. Il numero degli occupati è tornato a salire dopo la contrazione di luglio. Segna una crescita di 59 mila unità (+0,3%) su base mensile e di 523 mila in un anno. Quest’ultimo è dato da +550 mila lavoratori a tempo indeterminato e +48 mila autonomi, mentre i lavoratori a tempo determinato risultano diminuiti in dodici mesi di 74 mila unità. Sta aumentando la stabilità del lavoro, vale a dire anche la qualità dello stesso.

E il tasso di occupazione è risalito al record del 61,5%. Poco spazio all’autocompiacimento, visto che la media nell’Eurozona si attesta a una decina di punti percentuali sopra.

Stipendi bassi e inattivi ancora numerosi

Ad occhio e croce, in Italia lavorano 4 milioni di persone in meno di quanti sarebbero occupati in base alla media europea. Confronto impietoso con paesi come la Germania, dove il tasso di occupazione è superiore al 75%. Ad ogni modo, si registra da tempo un netto miglioramento di cui bisogna prendere atto con soddisfazione. In soldoni, su 38,4 milioni di persone in età lavorativa (15-64 anni), 23,5 milioni lavorano, 13 milioni sono inattivi (non lavorano e non cercano un lavoro attivamente) e altri 1,8 milioni scarsi risultano disoccupati, ossia in cerca di un lavoro.

Il dato degli inattivi, che incide per il 33,5% del totale, resta elevatissimo. Segno della scarsa fiducia che molti cittadini nutrono verso il mercato del lavoro, particolarmente al Sud. Milioni di italiani neppure si iscrivono ai Centri per l’impiego, consapevoli che sarebbe una perdita di tempo. E i bassi stipendi non incoraggiano d’altronde a muoversi in cerca di opportunità. Proprio il dato record dell’occupazione si presta in tal senso a una doppia interpretazione.

Boom di occupati in 10 anni

Non vi è dubbio che sia positivo che a lavorare in Italia siano molte più persone di qualche anno fa.

Pensate che dall’inizio delle rilevazioni Istat dal 2004, il minimo fu toccato a inizio 2014, quando gli occupati scesero sotto quota 21,8 milioni. Da allora, una risalita di 1,8 milioni, pari alla somma degli abitanti di Abruzzo e Molise. Il problema è che l’aumento dell’occupazione non sempre è garanzia di miglioramento delle condizioni di lavoro. Ve lo spieghiamo con qualche numero.

Nel 2008, anno in cui esplose la crisi finanziaria mondiale con il crac di Lehman Brothers, in Italia lavoravano in media 23 milioni di persone. Il PIL di quell’anno si attestò in valore a circa 1.638 miliardi di euro. Quest’anno, in media stanno lavorando 23,5 milioni di persone e il PIL è atteso a 2.050 miliardi. Cos’è il PIL? La produzione di beni e servizi moltiplicata per i rispettivi prezzi di mercato. In altre parole, ogni lavoratore nel 2008 produceva ricchezza per circa 71.150 euro, mentre quest’anno il dato salirebbe sopra 87.200 euro. La crescita risulta essere stata in quindici anni del 22-23%.

Occupazione record, ma giù produttività lavoro

C’è da dire che in questo frangente, l’inflazione italiana è stata di circa il 33%, vale a dire la media dell’1,9% all’anno. In termini reali, quindi, la ricchezza pro-capite prodotta da ogni lavoratore in Italia non è cresciuta, bensì diminuita del 10%. Questo spiega in maniera cruda, lampante la ragione per cui gli stipendi degli italiani siano così bassi e stentino a crescere persino con tassi d’inflazione a doppia cifra. La produttività non aumenta. Non vogliamo dire che i lavoratori siano sfaticati, in quanto la loro produttività dipende da molteplici fattori, tra cui l’impiego di tecnologie, gli investimenti delle imprese, le condizioni macroeconomiche, ecc.

In conclusione, l’aumento dell’occupazione è senz’altro positivo in sé. Peccato che non rispecchi un altrettanto aumento della produttività. E’ come se più persone siano costrette a spartirsi una torta sempre uguale o, addirittura, più piccola.

Ognuno vorrebbe averne una fetta più grande, ma il risultato concreto è che ottiene nel tempo una fetta stabile o più striminzita. L’unico modo per aumentare gli stipendi con una produttività calante sarebbe che le imprese si tagliassero i margini di profitto. Non tutte, anche volendo, sarebbero in grado. E, certamente, il trend non sarebbe positivo per la futura crescita dell’economia. I profitti servono a finanziare i futuri investimenti, a loro volta indispensabili per l’occupazione e il miglioramento degli stipendi.

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