Annuncio choc da parte di ArcelorMittal con una lettera inviata al governo italiano. Il colosso indiano dell’acciaio comunica la rescissione del contratto di affitto relativo agli impianti della ex Ilva e siglato il 31 ottobre 2018, facendo presente altresì che dovrà essere lo stato, a decorrere dei 30 giorni dalla data di ricevimento della missiva, a doversi fare carico degli assets e dei dipendenti. Una vera bomba, che starebbe per scoppiare particolarmente a Taranto, città in cui risultano impiegati 8.200 lavoratori su un totale di 10.700 in tutta Italia per l’ex Ilva.

ArcelorMittal si era impegnata a investire 1,1 miliardi per l’ambiente, 1,2 miliardi a scopo produttivo e 1,8 miliardi per rilevare gli impianti al termine dei 18 mesi di affitto, decorsi nel novembre 2018, detratti i canoni del periodo. Che si tratti di tattica negoziale per indurre il governo italiano a trattare da una posizione di debolezza o addio senza indugi all’Italia lo verificheremo dalle prossime ore. Di certo, la vicenda ha a che vedere con le incertezze legali generate dallo stato italiano e che riguardano, in particolare, la cosiddetta immunità penale sui temi ambientali.

Nel 2015, al fine di attirare gli investitori privati a comprare l’ex Ilva, il governo Renzi aveva concesso due anni di immunità per i reati ambientali a chi avesse rilevato gli impianti. Quest’anno, dopo settimane di furenti polemiche, in piena estate era stato lo stesso Luigi Di Maio, allora da ministro dello Sviluppo, ad avere garantito agli indiani una proroga di 4 anni dell’immunità per gli impianti più pericolosi. Tuttavia, nel cosiddetto “Decreto Salva Imprese”, votato qualche giorno fa dalla Camera in via definitiva, proprio il Movimento 5 Stelle aveva preteso che l’immunità ambientale fosse tolta dal testo, sopprimendo l’art.14.

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Immunità penale per reati ambientali

Di conseguenza, il quadro normativo è cambiato nel giro di meno di e mesi, allarmando non poco ArcelorMittal, che teme adesso di dover fronteggiare anche eventuali processi a carico dei propri dirigenti per reati legati all’inquinamento degli impianti.

Troppo per una società attiva in un mercato – quello dell’acciaio – in crisi da anni e che perde mediamente 2 milioni di euro al giorno. Il sito di Taranto è stato autorizzato a produrre 6 milioni di tonnellate l’anno, ma per il 2019 non si dovrebbe andare oltre 4,5 milioni. Infatti, 1.276 lavoratori sono stati collocati in cassa integrazione per 13 settimane.

E’ chiaro che ci troviamo dinnanzi a una bomba sociale dai risvolti politici locali e nazionali di primissimo piano. L’immagine già molto sofferente dei 5 Stelle rischia di appannarsi definitivamente su una questione così delicata come la tutela dei livelli occupazionali. Quell’equilibrio tra diritti al lavoro e tutela dell’ambiente che solo qualche giorno fa veniva sbandierato alla Camera dai “grillini” non solo non è stato trovato, ma si è rivelato un boomerang totale, se è vero che adesso lo stato italiano dovrebbe accollarsi la gestione di una fabbrica che inquina e certamente danneggia la salute degli abitanti di Taranto, ma per la quale non ha soldi pubblici da investire.

In sostanza, con la fuga dall’Italia di ArcelorMittal, ci ritroveremmo con migliaia di posti di lavoro a rischio e senza un euro da investire per disinquinare. Un indubbio “successo” per i 5 Stelle, che finiranno verosimilmente per l’ennesima volta sul banco degli imputati alle prossime urne pugliesi, oltre che qua e là nel resto dello Stivale. E il PD potrebbe far loro compagnia.

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