La velocità dei cambiamenti che stanno avvenendo in Medio Oriente rischia di disorientarci. Fino a poco tempo fa, le nostre uniche certezze su questa calda area del mondo erano che l’Arabia Saudita è amica degli Stati Uniti d’America e nemica giurata dell’Iran. I fatti di questi anni non avevano che confermato: guerre per procura in Siria e Yemen, il boicottaggio del Qatar dei vicini del Golfo, le altissime tensioni tra Teheran e Washington sul dossier nucleare, ecc. La svolta geopolitica è stata accelerata dalla guerra tra Russia e Ucraina.

L’Occidente sostiene Kiev, gran parte dell’Asia sta con Mosca o apertamente o tacitamente.

Svolta accelerata da guerra russo-ucraina

Ci sono fattori culturali e interessi economici dietro a questi schieramenti. Appellarsi alla difesa della democrazia e della libertà contro l’occupante russo fa breccia in Europa, Nord America, Oceania, Corea del Sud e Giappone, non certo in Medio Oriente. Inoltre, le durissime sanzioni finanziarie comminate alla Russia hanno instillato il dubbio presso alcuni “amici” degli Stati Uniti con scheletri nell’armadio che, prima o poi, anche a loro potrebbe spettare una sorte simile. E’ scattata la ricerca di un’alternativa alla sfera d’influenza americana in Arabia Saudita.

A chi rivolgersi? Il Medio Oriente, dicevamo, è una zona “calda” del pianeta non soltanto dal punto di vista climatico. I conflitti geopolitici sono all’ordine del giorno. L’amicizia storica tra Riad e Washington si è fondata per oltre mezzo secolo su un baratto reciprocamente conveniente: protezione militare degli americani a favore del regno in cambio delle esportazioni di petrolio solo in dollari. La monarchia saudita si è garantita la sicurezza in un’area a rischio, Zio Sam un sostegno determinante al dollaro come valuta di riserva mondiale.

Vola import-export tra Riad e Pechino

Che il principe ereditario Mohammed bin Salman metta in dubbio questo patto, significa che ha trovato un’alternativa: la Cina.

L’anno scorso, gli scambi commerciali tra Arabia Saudita e Cina sono stati pari a 116 miliardi di dollari. In particolare, i cinesi hanno esportato nel regno 40 miliardi netti. Dunque, per il momento la bilancia pende fortissimamente dalla loro parte. Cinque anni prima, l’interscambio tra i due paesi era compreso tra 45 e 50 miliardi. Il balzo è stato di circa il 145%.

Sempre nel 2022 l’interscambio commerciale tra Arabia Saudita e Stati Uniti è stato di 35,71 miliardi, con esportazioni nette saudite per 12,6 miliardi. Il dato complessivo risulta in calo dai circa 36,5 miliardi di cinque anni prima. Ed è vero che la bilancia in questo caso pende a favore dei sauditi, ma poco meno del 90% delle importazioni americane ha ad oggetto il petrolio. In altre parole, gli Stati Uniti per l’Arabia Saudita non è poi chissà quale cliente. Compra quasi solo greggio, una materia prima che facilmente si può vendere a chiunque altra nazione al mondo che ne è priva. E la transizione energetica in corso nell’Occidente rende gli americani sempre meno appetibili in prospettiva.

Al contrario, i cinesi avranno sempre più bisogno di energia per crescere. Anch’essi puntano sulle energie rinnovabili, come del resto la stessa economia saudita. Solo che, a differenza dell’Occidente, Pechino è pragmatica e non s’impicca al raggiungimento di obiettivi che confliggano nel breve e medio periodo con la sua crescita. A Xi Jinping interessa un Medio Oriente de-americanizzato. E sta già incassando i primi risultati. Ha avviato il dialogo tra sauditi e iraniani. Sembrava impossibile fino a pochi mesi fa. In generale, ha attirato a sé tutta l’area. Riceverà materie prime a buon mercato e offrirà in cambio quella protezione per decenni garantita dagli americani.

Arabia Saudita in cerca di riassetto geopolitico

In sostanza, nel suo “cortile di casa” Xi non vuole schiamazzi.

E il rafforzamento dei legami geopolitici sta già lambendo le relazioni commerciali ed economiche. Obiettivo: creare un’area abbastanza solida e resiliente contro l’Occidente, capace al suo interno di garantirsi l’approvvigionamento alle materie prime e i capitali necessari per sostenere lo sviluppo. Nel lungo termine, la Cina punta anche a detronizzare il dollaro dal suo status di valuta di riserva mondiale. Il colpo di grazia lo inferirebbe la fine del sistema dei “petrodollari”. Riad ha aperto ufficialmente all’ipotesi di vendere alla Cina greggio in yuan, ma ad oggi non ha segnalato la volontà di porre fine a un accordo che da cinquanta anni le garantisce benessere. Ricordiamo che la sua valuta nazionale – il rial – è ancorato al dollaro da un tasso di cambio fisso sin dal 1985.

Ancora prima della transizione energetica, i motivi di frizione con gli Stati Uniti erano stati provocati dalla corsa alle estrazioni di “shale”. L’economia americana punta da anni all’indipendenza energetica. Di fatto, le sue importazioni dall’Arabia Saudita sono crollate dai circa 1,5 milioni di barili al giorno di inizio anni Duemila ad una media attuale di 400.000. La dipendenza dal regno è precipitata da circa il 7-8% del suo fabbisogno al 2% attuale. Il principe ha compreso la crescente marginalità agli occhi dell’alleato e sta per tempo adottando i dovuti accorgimenti. Già da anni l’avvicinamento storico alla Russia, con cui nei fatti coordina ormai la politica dell’OPEC+ nel tentativo di mantenere il controllo del mercato petrolifero mondiale.

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