Una rondine non fa primavera, ma è anche vero che più indizi iniziano a formare una prova. Dopo che la Russia ha annunciato che userà lo yuan come valuta di riserva, ha stretto un accordo con l’India per venderle petrolio in rubli, puntando sulle quotazioni denominate in yuan. E l’altro ieri è arrivata la notizia che l’Arabia Saudita accetterà i pagamenti in valuta cinese per il petrolio venduto a Pechino. Dopo circa mezzo secolo, il sistema dei “petrodollari” rischia di sgretolarsi.

Agli inizi degli anni Settanta, l’allora presidente americano Richard Nixon volò fino a Riad con il suo segretario di Stato, Henry Kissinger, per incontrare Sua Maestà Re Faisal. I due capi di stato strinsero un accordo di ferro: i sauditi avrebbero ricevuto dall’America sicurezza militare e gli americani avrebbero ottenuto la quotazione in dollari di tutto il petrolio esportato dal regno. Fu così come nacquero i petrodollari, vale a dire un connubio che permette a tutt’oggi agli USA di mantenere integro lo status del dollaro quale valuta di riserva mondiale.

I benefici dei petrodollari per l’economia americana sono evidenti. L’80% del greggio mondiale è scambiato in valuta americana, la cui domanda sui mercati internazionali resta inevitabilmente sempre alta. Grazie a questo, la Federal Reserve può permettersi di fissare tassi d’interesse più bassi di quanto spesso dovrebbe senza rischiare alcuna fuga dei capitali e, quindi, inflazione. Da parte sua, il governo può indebitarsi senza perdere mai la fiducia del mercato e a costi molto contenuti. Lo stesso settore privato può accumulare debiti a basso costo.

Petrodollari, rischio effetto valanga

Adesso, il sistema dei petrodollari scricchiola, sebbene gli analisti rassicurino l’amministrazione Biden che la mossa saudita sarebbe solamente simbolica, un modo per fare pressione sulla Casa Bianca. Il principe Mohammed bin Salman si rifiuta persino di rispondere al telefono al presidente Biden, il quale da giorni chiama per sollecitare un aumento della produzione di petrolio.

Riad è offesa dagli insulti verbali di Biden, secondo cui il regno sarebbe uno “stato paria” dopo il brutale assassinio di Jamal Khashoggi, giornalista saudita e su posizioni ostili alla Casa Reale.

L’Arabia Saudita sta esportando petrolio in Cina al ritmo medio di 1,76 milioni di barili al giorno, oltre un quarto delle sue esportazioni complessive. Alle quotazioni di questi giorni, i pagamenti da parte di Pechino ammonterebbero a non meno di 60 miliardi di dollari all’anno. Se questo denaro fosse convertito in yuan, sarebbe un duro colpo d’immagine per i petrodollari. D’altra parte, il peggio arriverebbe nel caso in cui i sauditi sganciassero il rial dal dollaro. Sin dal 1985 esiste un “peg” che lega le due valute al tasso di cambio fisso di 3,75 rial per un dollaro. In effetti, privandosi di entrate in dollari per ottenerle in valuta cinese rischia di destabilizzare proprio il cambio saudita.

La fine di questo “peg” da anni è considerato un “cigno nero” per i mercati finanziari. Avrebbe contraccolpi psicologici durissimi per gli investitori, i quali confidano sul mantenimento di un ordine mondiale basato su alcuni principi basilari. E il sistema dei petrodollari è uno di questi. Peraltro, anche quasi tutte le altre materie prime sono oggi vendute in dollari. Se cadesse il petrolio, anche beni come i metalli industriali o le derrate alimentari, molti dei quali prodotti in Asia, rischiano per gli USA di essere scambiati in altre valute.

Yuan al posto del dollaro in Asia?

Bisogna essere chiari: ad oggi lo yuan non possiede le caratteristiche per rimpiazzare il dollaro come valuta di riserva mondiale. Ha un mercato poco liquido – ma la conversione di molti scambi potrebbe parzialmente risolvere il problema – e non è stabile e sicuro per gli investitori stranieri.

Tra l’altro, la formazione del suo tasso di cambio resta perlopiù un processo ignoto, non avvenendo del tutto tramite i meccanismi di mercato, bensì per fissazione da parte delle autorità nazionali. Ad oggi, i due terzi delle riserve globali sono denominate in dollari. Tuttavia, proprio la necessità di detenere scorte di valuta americana per acquistare materie prime tiene alta tale percentuale, a discapito anche dell’euro.

Può darsi che l’annuncio saudita sia grosso modo una provocazione per mettere in guardia Washington su cosa vi sia in ballo con l’allentamento dei rapporti con Riad. Il regno è inorridito all’idea che Biden trovi un accordo sul nucleare con l’Iran e consenta a questi di tornare ad esportare petrolio. Non tollera di non essere difeso dagli attacchi dei ribelli Houthi nello Yemen, sostenuti da Teheran. E teme di finire un giorno in una qualche “blacklist” americana come la Russia in queste settimane. Non è casuale che abbia annunciato subito dopo la comminazione delle sanzioni alla Russia di voler rimpatriare gradualmente le proprie riserve valutarie dagli USA. Allo stesso principe non conviene mollare del tutto l’alleato storico, ma neppure a Biden di guardare con sufficienza alle reazioni saudite. Sui petrodollari si regge gran parte del sogno americano.