Mentre in Italia si discute oggi, in un incontro tra il governo e i sindacati, se innalzare a 67 anni l’età pensionabile dal 2019, in conseguenza dell’adeguamento alla maggiore longevità media, come da dati Istat, in altri paesi prendono piede, almeno nel dibattito pubblico, soluzioni assai più drastiche. In Giappone, noto per la dedizione al lavoro dei suoi cittadini, da tempo ci si interroga su come tenere in piedi il sistema previdenziale, quando già oggi la percentuale di over-65 sul totale della popolazione è la più alta al mondo con il 25%, seguita dal 21% di Germania e Italia.

A fronte di tale dato, Tokyo registra tra i tassi minori di fertilità del pianeta con 1,5 figli per donna, di poco superiore all’1,4 dell’Italia. (Leggi anche: Sistema pensionistico in Italia fallito, cosa ci insegna il modello cileno)

E il Giappone è anche tra i paesi al mondo, insieme all’Italia, con la maggiore longevità dei suoi cittadini. In pratica, i giapponesi vivono a lungo, sono mediamente molto vecchi e fanno pochissimi figli. Le condizioni perfette per fare esplodere la previdenza. Ecco, quindi, che il governo di Shinzo Abe starebbe ipotizzando una soluzione a dir poco draconiana: elevare l’età pensionabile dai 61 anni a cui è stata portata di recente a 85 anni. Sì, i lavoratori giapponesi dovrebbero restare occupati fino alla morte, sempre che godano di buona salute.

Ad oggi, il sistema previdenziale pubblico nipponico funziona così: a 60-61 anni si può scegliere se andare in pensione o se restare al lavoro per un certo numero di anni (5-10, a seconda degli accordi intercorsi con l’azienda), ma in questo secondo caso con uno stipendio ridotto. Molti optano per restare al lavoro, come dimostra il fatto che ben il 23% degli over 65 in Giappone risultino ancora occupati. A seguire gli USA con il 19,3%.

Pensioni in Giappone basse, meglio lavorare

Non è difficile capire la ragione per cui molti giapponesi preferiscano continuare a lavorare.

Oltre a un fatto culturale, si consideri che la pensione pubblica copre sempre meno le esigenze reddituali dei percettori, il cui assegno è già stato tagliato dal 25% di oltre un decennio fa a poco più del 18% odierno dell’ultimo stipendio. Dunque, o si gode di una pensione integrativa, oppure difficilmente si riuscirebbe a vivere di sola pensione, a meno di non avere messo da parte un bel po’ di risparmi nel corso della propria carriera professionale.

Formalmente, il sistema previdenziale pubblico di Tokyo è stato istituito con l’obiettivo di garantirne la sostenibilità per i prossimi 100 anni. Le risorse di cui dovrebbe godere per effetto della contribuzione minima richiesta da quanti decidano di aderire allo schema pubblico ammonterebbero a 2,06 miliardi di miliardi di yen in un secolo. Il punto è che l’Asia oggi appare come il continente a più rapido invecchiamento sulla Terra: da qui al 2030, ben 200 milioni di suoi cittadini entreranno a far parte della popolazione over 65, crescendo del 71%, quando nel Nord America si registrerebbe un +55% e in Europa un +31%. (Leggi anche: Spesa pensionistica in Italia insostenibile? Servono milioni di lavoratori in più)

Ciò significa che in Giappone vi saranno sempre più anziani e sempre meno lavoratori. Si consideri anche che il paese non è meta di immigrati, né segnala di desiderarlo essere, per cui a pagare le pensioni dovranno essere certamente i giapponesi stessi, i quali a queste condizioni o si dovranno rassegnare a percepire assegni sempre più bassi o dovranno restare al lavoro per più anni, se non per sempre.

Similitudini tra Giappone e Italia

Attenti a pensare che le ipotesi estreme sulle quali starebbe ragionando Tokyo siano da relegare al solo Sol Levante. I fondamentali demografici dell’economia nipponica appaiono sin troppo simili a quelli di Italia e Germania e anche il Giappone non vive più una stagione di crescita del pil da un quarto di secolo, mentre da due decenni combatte contro la deflazione senza successo, un fenomeno quest’ultimo che in Italia è apparso come minaccia negli ultimi anni, anche se dovrebbe già essere rientrato.

Infine, un’altra somiglianza tra Roma e Tokyo: il debito pubblico. Il nostro è esploso al 133% del pil, ma quello nipponico è schizzato al 230%, complice la deflazione, che abbassando il denominatore, innalza irrimediabilmente il rapporto debito/pil. E se ci svegliassimo una mattina con il governo di turno ad annunciare che l’unico modo per uscire dal mercato del lavoro sarebbe la morte? (Leggi anche: Debito pubblico generato per due terzi dalle pensioni)