Stupefatti dalla rapida ascesa delle quotazioni dei Bitcoin, esplose fino a oltre 12.800 dollari nella seduta di ieri, segnando un rialzo superiore al 1.200 quest’anno? In effetti, considerando che nel frattempo l’oro è salito solo del 10% e che la stessa borsa americana, pur in brillante forma, ha messo a segno guadagni del 22%, il boom della moneta digitale appare davvero straordinario. Ma avete sentito di una borsa, che quest’anno è esplosa di circa il 4.150%, ovvero di quasi quattro volte in più degli stessi Bitcoin? Eppure, essa esiste e formalmente adesso sarebbe la più grande al mondo per capitalizzazione delle sue società quotate, valendo sui 30.000 miliardi di dollari.

Già, più ricca di Wall Street e oltre 50 volte più grande della nostra Piazza Affari. “Come ho fatto a farmi sfuggire questa opportunità della vita?”, ti starai chiedendo in questi attimi. Prima di morderti le dita, però, sappi che parliamo della Borsa di Caracas, ovvero con sede nell’economia peggio gestita al mondo, stando alle classifiche internazionali e, soprattutto, al buon senso. (Leggi anche: Venezuela, borsa a +115% in 2 mesi)

Le quotazioni su questo mercato sono letteralmente impazzite e certamente non per un qualche boom economico in corso nel Venezuela, dove il pil quest’anno si contrarrà del 12% e dal 2014 al 2016 è già crollato di quasi il 30%. E allora, com’è possibile che gli investitori si stiano buttando nell’azionariato bolivariano? La risposta si chiama iperinflazione. Non c’è alcuna corsa dall’estero a comprare titoli venezuelani, bensì solo ed esclusivamente dall’interno e per il solo fatto che decine di migliaia di famiglie stiano cercando di mettere al riparo i propri risparmi dall’esplosione dei prezzi, investendoli in borsa.

L’inflazione nel paese andino è già a quattro cifre, ma non si capisce bene a quale percentuale sia arrivata, variando le stime degli analisti indipendenti e degli organismi internazionali dal 1.000 al 4.000%, non essendovi statistiche ufficiali della banca centrale.

I prezzi raddoppiano ormai ogni circa otto settimane, ma la tendenza appare in accelerazione, come segnala anche il forte deterioramento del bolivar sul mercato nero. Da luglio, ha perso il 90% e adesso per comprare un dollaro ne servono intorno ai 100.000. E non a caso, anche la Borsa di Caracas si è impennata di oltre 10 volte dalla fine di luglio ad oggi. E se poco più di quattro mesi fa valeva sui 2.700 miliardi di dollari, adesso sarebbe in area 30.000 miliardi.

La confusione dei cambi in Venezuela

Attenzione, però, perché parliamo di numeri che non hanno alcun significato nel mondo reale. Formalmente, il tasso di cambio tra dollaro e bolivar è fissato a 1:10, ma esso è utilizzato ormai dal governo solamente per importare generi alimentari e medicine, anche se si fa riferimento perlopiù al cambio semi-libero del confuso sistema Simadi/Dicom, che si aggira intorno a 3.300 bolivares contro un dollaro, risultando pur sempre una trentina di volte più forte di quello più attendibile vigente sul mercato nero.

Pertanto, se passiamo dalle valutazioni ufficiali a quelle reali, i 30.000 miliardi di capitalizzazione della borsa venezuelana crollano a una cifra infima di appena 300 milioni di dollari, praticamente una frazione di quanto capitalizzino le piccole società quotate all’AIM a Piazza Affari. In sostanza, le società quotate a Caracas valgono niente, anche dopo la corsa di questi mesi, annullata dal contestuale crollo del bolivar sul mercato illegale del cambio, che pur sempre funge da riferimento. (Leggi anche: Venezuela, cambio confuso e forte)

Impossibile rimpatriare capitali dal Venezuela

E si consideri l’aspetto forse più importante per comprendere come il boom della Borsa di Caracas non rappresenti affatto un’opportunità perduta, nonostante abbia reso quest’anno quattro volte i Bitcoin: una volta portati i capitali lì, rivederli indietro resta impossibile. Infatti, lo stato non possiede riserve valutarie sufficienti per consentire a investitori e fornitori stranieri di convertire in dollari i ricavi realizzati nel Venezuela.

Ne consegue che essi rimangono “intrappolati” e in valuta locale nel paese. Per questo, le compagnie aeree sono state tra le prime a interrompere o ridurre al minimo le relazioni con Caracas, vantando miliardi di dollari di fatturato non riscosso e che forse non verrà mai loro consentito di tradurre allo stesso tasso di cambio al quale avevano venduto i biglietti ai passeggeri. Stesso discorso per numerose realtà societarie straniere.

Ammettiamo di avere avuto la “geniale” idea, un anno fa, di investire alla Borsa di Caracas. Avremmo dovuto scambiare dollari (per immediatezza di calcolo, utilizziamo la divisa americana) con bolivares al tasso di circa 1:700. Dunque, ipotizzando che avessimo comprato titoli per un milione di dollari, avremmo ottenuto sui 700 milioni di bolivares, che oggi mediamente varrebbero intorno a 29 miliardi di bolivares. Tuttavia, una volta disinvestito, non potremmo più convertire tali titoli in valuta locale in euro, semplicemente perché non esistono dollari sufficienti per consentirci una simile operazione. E allora, se non volessimo rischiare di perdere tutto e di restare in attesa chissà quanti anni prima di potere rimpatriare i nostri capitali, dovremmo rivolgerci al mercato nero, dove un dollaro vale ormai intorno a 100.000 bolivares. Al nuovo cambio, otterremmo qualcosa come 300.000 dollari, ovvero meno di un terzo di quanto investito un anno prima. Ammesso che anche un anno fa, avessimo acquistato bolivares al mercato nero, rischiando chiaramente di finire nel mirino del regime “chavista”, avremmo ottenuto con lo stesso milione di dollari sui 2 miliardi di bolivares, i quali oggi in borsa ci varrebbero quasi 85 miliardi, ma che riconvertiti al nuovo cambio (nero), farebbero 850.000 dollari, sempre meno di quanto abbiamo speso. E sempre che risulti possibile convertire per vie traverse tale flusso di denaro, senza finire in una qualche cella di Caracas. (Leggi anche: Crisi Venezuela, cifre di un disastro)