Non è al taglio dei tassi di interesse di oggi alla Banca Centrale Europea (BCE) che i mercati guarderanno nelle prossime ore. E’ scontato, lapalissiano, non lo mette in discussione proprio nessuno. L’inflazione nell’Eurozona a maggio è tornata sotto il 2% e non sembrano per il momento sussistere ragioni per immaginare che risalga repentinamente. Ma i “falchi” metteranno sul tavolo la pausa, perlomeno per l’estate. E alla luce di quanto sta accadendo da mesi alla curva dei rendimenti, il loro approccio potrebbe rivelarsi il più idoneo.
Banche centrali in trappola
C’è un’altra notizia che arriva in queste ore da Tokyo: la Banca del Giappone ha ricevuto numerose richieste da parte di operatori del mercato, affinché riduca il “tapering“ da 400 a 200 miliardi di yen per trimestre dal prossimo anno fiscale.
Probabile che l’istituto non segua tale indicazione, anche se ha segnalato di essere perfettamente consapevole del boom dei rendimenti ultra-lunghi. Infine, il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha dichiarato ieri che l’economia americana starebbe rallentando, ma così anche l’inflazione. Un’apertura tra le righe al taglio dei tassi reclamato dal presidente Donald Trump con modi e toni molto sbrigativi.
Cosa hanno in comune queste tre storie? Tutte le grandi banche centrali stanno avendo grossi problemi con la curva dei rendimenti. Rispetto a quando la FED ha iniziato a tagliare i tassi nel settembre scorso, il Treasury a 30 anni offre oggi lo 0,80% in più e il Treasury a 10 anni lo 0,75% in più. Il Bund a 10 anni rende attualmente esattamente quanto o persino qualche decimale in più rispetto a un anno fa, quando la BCE annunciava il suo primo taglio dei tassi.
In Giappone le cose stanno andando molto peggio: rendimenti esplosi sul tratto lungo della curva ai massimi storici o da decenni.
Tassi efficaci sulle scadenze medio-brevi
C’è qualcosa che, evidentemente, non starebbe funzionando. A dire il vero, non proprio. Le banche centrali possono influenzare direttamente il tratto breve della curva dei rendimenti, che riflette le condizioni monetarie. Il tratto lungo dipende da fattori come le aspettative d’inflazione e le previsioni sull’indebitamento degli stati. Ed è proprio qui che casca l’asino. Negli ultimi mesi, i tassi stanno scendendo e i governi stanno annunciando piani di aumento del debito, vuoi per il riarmo o per sostenere l’economia come nel caso degli USA. Gli stessi dazi e i timori sulla tenuta della globalizzazione stanno paventando il rischio che l’inflazione rialzi strutturalmente la testa per i prossimi anni.
I governi stanno facendo pressione sulle banche centrali, chi esplicitamente e chi dietro le quinte, per ottenere un costo del denaro più basso con cui finanziare i rispettivi piani di spesa. Ad oggi lo hanno ottenuto, fatta parziale eccezione degli USA, ma senza che questo stia portando a una riduzione significativa dei costi di emissione.
Tant’è che il Giappone ha dovuto annunciare il taglio delle emissioni ultra-lunghe per calmare gli animi. Una reazione non certo rassicurante, perché porta a immaginare che i nuovi debiti avranno scadenze medie più corte e che, quindi, nei prossimi anni i conti pubblici saranno maggiormente esposti alla volatilità dei mercati.
Curva dei rendimenti segnale di allarme
I “falchi” come la Bundesbank oggi potrebbero centrare il punto nel reclamare una pausa sui tassi. Essa servirebbe a ridurre le aspettative d’inflazione tra gli investitori e magari a riportare con i piedi sulla Terra i governi. Minori pressioni in tal senso permetterebbero una discesa dei rendimenti sul tratto lungo della curva e la ripresa del taglio dei tassi entro fine anno. C’è il rischio, invece, che proseguendo a tagliare i tassi, i mercati scontino maggiori criticità e pretendano rendimenti ancora più alti per le scadenze lunghe. Sarebbe un fatto molto negativo per la solidità fiscale presso le grandi economie mondiali.