Pubblico impiego e rinnovo dei contratti. Ne abbiamo parlato con Marco Carlomagno, Segretario generale di FLP (Federazione Lavoratori Pubblici e Funzione pubbliche).
Sta per essere firmato il terzo rinnovo contrattuale per i dipendenti pubblici in tre anni, dopo un lungo decennio di blocco degli stipendi. Gli aumenti in busta paga la soddisfano?
Abbiamo sottoscritto il contratto collettivo nazionale 2022-2024 delle funzioni centrali sapendo che nelle leggi di bilancio erano già previste le risorse per il rinnovo del triennio 2025-2027 e anche di quello successivo 2028-2030, in applicazione delle nuove regole europee. Questo è un cambio di passo importante rispetto alle stagioni del blocco dei contratti: si apre finalmente una fase di rinnovi ciclici e regolari per il pubblico impiego.
Se guardiamo all’intero arco temporale già finanziato, i benefici economici garantiscono una sostanziale tenuta, e in parte anche una ripresa, del potere d’acquisto dei dipendenti pubblici. Tuttavia, non basta ancora a colmare il divario creato negli anni del Covid e dall’impennata dell’inflazione. Per questo, pur considerandolo un passo in avanti, come FLP chiederemo ulteriori risorse.
Al di là degli stanziamenti per i rinnovi, però, il nodo vero è un altro: bisogna superare i vincoli che impediscono una reale ripresa della dinamica salariale, soprattutto a livello di contrattazione decentrata. È necessario sbloccare i fondi di amministrazione per la produttività, ancora inchiodati ai valori del 2015: un limite ormai ingiustificabile. Allo stesso tempo chiediamo di rafforzare strumenti innovativi come il welfare aziendale e l’aumento del valore del buono pasto, che possono dare un segnale concreto, anche economico, già dai prossimi rinnovi.
Quando parliamo di impiegati e funzionari pubblici, un tema ricorrente in Italia è l’assenza di meccanismi che premino i risultati.
Il ministro della Funzione pubblica, Paolo Zangrillo, ha posto un tetto del 30% per i dipendenti premiabili. Lei si è detto contrario. Non pensa che sia un modo per porre fine alla pratica dei premi a pioggia, slegati di fatto dai risultati?
Bisogna innanzitutto sfatare un luogo comune: nella pubblica amministrazione gli strumenti per riconoscere le performance individuali esistono. Il problema è che spesso vengono usati male dai dirigenti o che ci sono poche risorse da distribuire, proprio perché per anni il lavoro pubblico è stato trattato più come un costo che come un motore di sviluppo.
Fissare per legge una percentuale rigida di personale “premiabile”, come il tetto del 30%, significa di fatto limitare la contrattazione e ridurre lo spazio di partecipazione delle organizzazioni sindacali. Il merito e le varie forme di premialità devono essere inseriti in un quadro organico, con sistemi di valutazione coerenti, trasparenti e condivisi. E il merito non può tradursi solo in un riconoscimento economico occasionale: deve diventare anche uno strumento per costruire veri percorsi di carriera, che oggi nel pubblico impiego sono ancora troppo deboli.
La contrattazione ha dimostrato di saper cogliere queste esigenze ed è uno strumento fondamentale per valorizzare il lavoro. Non credo servano nuove norme calate dall’alto: se non accompagnate da una solida cultura gestionale rischiano di restare lettera morta o, peggio, di deresponsabilizzare chi deve applicarle.
Rispetto al passato il solo posto fisso non basta. Ai concorsi indetti negli ultimissimi anni si sono presentati spesso meno candidati dei posti disponibili e molti vincitori non hanno neppure firmato per l’accettazione, mentre altrettanti si sono dimessi dopo pochi giorni. Era qualcosa di inimmaginabile fino a poco tempo fa, soprattutto al Sud. Ci può spiegare cosa succede?
Per anni il blocco del turnover e la riduzione degli organici hanno reso la nostra pubblica amministrazione una delle più fragili e sottodimensionate in Europa. Nell’ultimo quinquennio questo trend si è finalmente invertito, ma il problema della mancata copertura dei posti ha due cause principali.
La prima riguarda gli stipendi, che restano poco allineati sia alla media europea sia al livello di professionalità richiesto. Per molti profili, il settore privato offre retribuzioni più alte e condizioni economiche complessivamente più attrattive.
La seconda ha a che fare con i modelli organizzativi. In molte amministrazioni il nuovo modo di lavorare fa ancora fatica a entrare: le nuove tecnologie, la flessibilità, lo smart working e gli strumenti di conciliazione vita-lavoro vengono talvolta percepiti come problemi più che come opportunità, soprattutto da una burocrazia che fatica a rinnovarsi.
In questo contesto è comprensibile che le nuove professionalità, spesso giovani e altamente qualificate, non siano disposte a trasferirsi di colpo a centinaia di chilometri dalla propria residenza, magari in grandi città dove il costo della vita è elevatissimo. Molti rinunciano già in fase di concorso o lasciano dopo pochi mesi. Servono quindi non solo retribuzioni più adeguate, ma anche reali prospettive di crescita professionale e forme di lavoro più flessibili, per rendere di nuovo appetibile il lavoro pubblico in un mercato del lavoro che sta cambiando rapidamente.
In Italia abbiamo letto spesso che ci sarebbero troppi dipendenti pubblici, mentre scopriamo che nel confronto internazionale ne avremmo persino pochi in rapporto alla popolazione. Esiste, però, un problema di distribuzione tra gli uffici e sui territori? Per essere più chiari, non è che abbiamo troppi passacarte e pochi infermieri?
I dati statistici sono chiari: il rapporto tra dipendenti pubblici e popolazione, in Italia, è tra i più bassi nei Paesi industrializzati.
Questo è il risultato di trent’anni di progressivo depotenziamento della pubblica amministrazione, portato avanti con l’idea – sbagliata – che il privato potesse sostituirla nella gestione dei servizi con minori costi e uguale efficacia.
Queste politiche hanno indebolito le amministrazioni sia dal punto di vista numerico che professionale. Il blocco delle assunzioni ha impedito l’ingresso delle nuove competenze richieste da attività profondamente cambiate, anche per effetto delle tecnologie. Permane una differenza di distribuzione tra Centro-Nord e Centro-Sud, ma dopo anni di mancato reclutamento anche molte realtà meridionali si ritrovano con organici ridotti e invecchiati.
C’è poi un tema qualitativo. Per molto tempo si è reclutato soprattutto personale con profili amministrativo-contabili, spesso nelle fasce medio-basse di inquadramento, per risparmiare. Oggi mancano figure specialistiche in diversi settori. Non solo mancano medici e infermieri nella sanità sanità, dove anni di blocco del turnover, esternalizzazioni e privatizzazioni hanno lasciato ospedali, ASL e servizi socio-sanitari con organici sempre più ridotti, ma mancano anche funzionari tecnici, professionisti o specialisti in settori cruciali come la lotta all’evasione fiscale, il contrasto al lavoro nero, la sicurezza sul lavoro, la gestione della previdenza o la tutela del patrimonio culturale. Non si tratta di spostare numeri da un settore all’altro, ma di varare politiche serie di reclutamento e di adeguata remunerazione soprattutto in sanità, istruzione e ricerca, che sono pilastri fondamentali per il futuro del Paese.
I rinnovi contrattuali, sacrosanti dopo anni di perdita del potere di acquisto, crede che potranno rilanciare gli stipendi anche nel settore privato, fungendo da “benchmark”?
I rinnovi contrattuali nel pubblico impiego, uniti a un parziale recupero del potere d’acquisto e a una nuova stagione di valorizzazione delle professionalità, possono avere un effetto positivo sull’intero mercato del lavoro. Il nostro Paese resta caratterizzato, anche nel settore privato, da livelli retributivi mediamente più bassi rispetto ai principali competitor internazionali.
Bisogna anche rilevare, però, che in molti settori, in particolare nei servizi più qualificati e vicini alle professionalità richieste anche dalla PA, il privato offre già oggi salari simili o superiori a quelli pubblici, soprattutto per i profili più richiesti. È quindi essenziale che il pubblico recuperi attrattività, perché in caso contrario rischia di perdere i lavoratori più qualificati proprio a favore del privato.
La ripresa della dinamica contrattuale, insieme all’utilizzo di strumenti innovativi che aumentino il netto in busta paga riducendo il peso di oneri e prelievo fiscale, può aiutare. Se a questo si aggiungono un vero rilancio della contrattazione e misure di detassazione mirata per lavoro pubblico e privato, si può sostenere la domanda interna, rafforzare la competitività e contribuire alla crescita economica del Paese.
Una domanda per concludere: la Pubblica Amministrazione non ha reagito sinora in misura soddisfacente alla sfida del PNRR. Già dai fondi di coesione europei sapevamo che gli uffici non siano capaci di reggere la mole di lavoro loro richiesta. Forse giustamente, più di qualcuno afferma che la PA sia il freno a mano dell’economia italiana. Perché all’estero – pensiamo alla Spagna – le cose vanno diversamente e cosa dovremmo fare per colmare questo divario una volta per tutte?
I fondi del PNRR sono arrivati dopo decenni di indebolimento e destrutturazione delle pubbliche amministrazioni. Il Piano ha portato importanti risorse aggiuntive e la necessità di rafforzare rapidamente gli organici di amministrazioni che per anni erano state impoverite, spesso ricorrendo a contratti a tempo determinato e forme di lavoro precarie. È evidente che un cambiamento così rapido non poteva produrre effetti immediati.
A questo si aggiunge anche il fatto che molte amministrazioni, con l’eccezione di alcune realtà come l’Agenzia delle Entrate, l’INPS o l’INAIL che negli anni hanno investito di più in innovazione, scontano un’arretratezza tecnologica e procedure ancora rigide e farraginose. Mi riferisco soprattutto agli enti locali, che hanno sulle spalle una parte decisiva dell’attuazione degli interventi e degli obiettivi del PNRR.
Questo insieme di fattori ha reso difficile un cambio di passo immediato. Non a caso i primi risultati sono arrivati sulla progettazione e sulle riforme, cioè sulla parte che non richiede ancora la realizzazione concreta delle opere. Le difficoltà maggiori emergono proprio quando si tratta di portare i progetti sul territorio, perché servono procedure più snelle, tempi certi e un modo diverso di lavorare.
L’occasione del PNRR, però, non può essere sprecata. Non deve restare un episodio straordinario isolato, né trasformarsi in un’occasione mancata. Deve servire a mettere basi solide per innovare in profondità le nostre amministrazioni: negli organici, nelle competenze, nelle dotazioni tecnologiche, ma soprattutto nelle procedure decisionali e operative. La semplificazione è ormai inevitabile, così come il taglio dei tanti livelli di decisione sovrapposti sugli stessi procedimenti.
Se la PA è stata vissuta come un freno allo sviluppo, le responsabilità stanno in gran parte in chi ha delegittimato la funzione pubblica e non ha programmato investimenti adeguati in infrastrutture, reti, tecnologia, formazione e capitale umano. Recuperare il tempo perduto e il divario con altri Paesi non consente più errori: la strada è impegnativa, piena di ostacoli, ma è decisiva per il futuro dell’Italia.
giuseppe.timpone@investireoggi.it