Vi immaginate un rendimento superiore al 5% per un bond di durata appena biennale? In effetti, non esistono più simili cifre sui mercati avanzati, mentre su quelli emergenti di opportunità del genere se ne presentano parecchie. E quella di cui diamo conto è un’obbligazione in dollari, per cui non presenta nemmeno rischi di cambio particolari, se non legati all’ordinario trend dell’euro-dollaro. Parliamo del bond ottobre 2021 e cedola 5,50% (ISIN: XS1501659384) emesso dal Pakistan nel 2016 per il valore di 1 miliardo di dollari e compatibile con la Sharia, la legge islamica.

In gergo, si definisce “sukuk” e strumenti di questo tipo puntano a raccogliere capitali tra gli investitori osservanti del credo mussulmano, che vieta la pratica degli interessi sul denaro offerto in prestito.

Al momento, il bond prezza 100,32, poco sopra la pari, rendendo il 5,34%, poco meno della cedola. Scade il 13 ottobre del 2021, tra poco più di 24 mesi. In apparenza, abbastanza allettante. I dati macro del Pakistan, tuttavia, dovrebbero spingerci alla massima prudenza. Anzitutto, rating bassissimi: “B-” per S&P e Fitch, “B3” per Moody’s, con le prime due agenzie ad avere assegnato prospettive “stabili” e la terza “negative” per i titoli del debito pakistani. In tutti e tre i casi, abbiamo un livello di giudizio “spazzatura”, cioè di 6 gradini al di sotto del minimo “investment grade”.

Sukuk bond: quelli del Pakistan rendono il 5,5%. Conviene? 

Come vi abbiamo spiegato in altri articoli, un criterio per valutare la sostenibilità del debito in valuta estera di un’economia emergente consiste nel guardare alle riserve valutarie. Ora, a fronte del solo miliardo del bond di cui sopra, a luglio le riserve in valuta di Islamabad ammontavano a 15,1 miliardi di dollari, per cui dovremmo dormire sonni tranquilli. Attenzione, però, perché esse risultano esposte a fondamentali assai negativi: la bilancia commerciale si presenta negativa per 30 miliardi all’anno e le stesse partite correnti, inclusive dei saldi dei capitali, restavano negative per 19 miliardi nel 2018.

In sintesi, il Pakistan “brucia” riserve.

E se scendono i tassi?

Per questo e anche per ottemperare alle richieste del Fondo Monetario Internazionale, la sua banca centrale ha dovuto svalutare la rupia quest’anno, indebolendola del 10% contro il dollaro rispetto a fine dicembre scorso. In più, il debito estero pakistano ammonta a 105 miliardi, qualcosa come oltre 4 volte il livello delle esportazioni. Dunque, in teoria il rischio di credito sarebbe altissimo. Non tutto è nero, comunque. Il debito pubblico si attesta al 67% del pil e sul suo rifinanziamento pesano i rendimenti dei bond. E questi stanno scendendo per la prima volta in 8 anni per la scadenza a 10 anni sotto i tassi d’interesse della banca centrale, alzati al 13,25% dopo 9 rialzi in oltre 3 anni per complessivi 750 punti base.

I decennali in valuta locale offrono il 12,7%, -140 bp dal maggio scorso. L’ultima volta che questo fenomeno si era verificato nel 2011, i tassi furono abbassati di 150 bp al 12%. Se accadesse di nuovo, specie man mano che gli effetti della svalutazione si faranno sentire sempre meno sui tassi d’inflazione, ancora prossimi al 12%, vi sarebbe spazio per una discesa ulteriore dei rendimenti sovrani pakistani, sebbene non sia detto che in tal senso vengano contagiati anche i sukuk in dollari, a meno che il mercato non li trovi relativamente più convenienti, data la minore appetibilità di quelli emessi in rupie.

Investire in bond emergenti in valute forti? Ecco a cosa guardare per limitare i rischi

In generale, che il rischio sovrano sia alto lo segnalano gli oltre 450 punti richiesti per l’acquisto di “credit default swaps” a 5 anni, pari a una probabilità di fallimento attesa del 7,5%. Ad ogni modo, a scopo speculativo i sukuk in dollari offrirebbero qualche soddisfazione nel caso in cui i tassi dovessero essere tagliati e i rendimenti in rupie scendessero ulteriormente, spostando le attenzioni sul debito in valuta forte di Islamabad.

Certo, se il cambio seguisse a ruota, accentuando i cali, l’effetto esitato si rivelerebbe potenzialmente l’opposto, con fuga da entrambi i titoli per il percepito maggiore rischio sovrano. In fondo, una rupia molto più debole renderebbe nel medio-breve termine più difficile onorare i debiti in dollari e il recupero delle riserve, tramite minori importazioni e maggiori esportazioni, non sarebbe immediato e nemmeno scontato.

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