Parli dell’Argentina e oltre al tango di viene in mente il default. Purtroppo, non è più solo uno stereotipo, bensì una situazione di fatto. Ad appena quattro mesi dall’ultima ristrutturazione sovrana, la compagnia petrolifera statale YPF ha dovuto alzare bandiera bianca. Agli inizi del mese, ha annunciato il lancio di uno “swap” su 6,2 miliardi di dollari di bond, con l’obiettivo primario di rinviare tutte le scadenze di quest’anno, le quali ammontano a 2,1 miliardi. L’operazione avrebbe formalmente natura volontaria, ma nei fatti se gli obbligazionisti non la accettassero, la società sarebbe costretta a dichiarare default, almeno sui pagamenti più ravvicinati.

In effetti, le obbligazioni da rimborsare in data 23 marzo e con cedola 8,5% (ISIN: USP989MJBG51) per un controvalore di 412,6 milioni di dollari, oltre ai circa 35 milioni di interessi, quotano nelle ultime sedute in area 84 centesimi, offrendo sostanzialmente un rendimento annualizzato del 155%. Il mercato sta scontando, quindi, un elevatissimo rischio di default.

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Ma cos’è successo di preciso? A inizio mese, la società aveva fatto richiesta alla banca centrale dei dollari necessari per provvedere ai pagamenti prossimi a favore dei creditori esteri. L’istituto si è rifiutato di concederle tutta la liquidità di cui ha bisogno, almeno non al tasso di cambio ufficiale. Da qui, la decisione di YPF di offrire agli obbligazionisti uno scambio su oltre 6 miliardi di obbligazioni emesse, così da trattare tutti i creditori in egual modo e teoricamente concedere loro condizioni migliorative rispetto a quelle attuali. Infatti, se rinunciano ai pagamenti alle scadenze previste, avranno in compenso un bond con scadenza nel 2026 e dal valore nominale leggermente superiore, oltretutto garantito dalle esportazioni. I titoli attuali, invece, sono debito “unsecured”.

Corporate argentino a rischio default

Il diniego della banca centrale è il vero motivo di allarme sui mercati finanziari.

Le riserve valutarie dell’Argentina sono diminuite di 5,5 miliardi di dollari nei primi 11 mesi del 2020, scendendo a meno di 33 miliardi e mezzo di dollari. Parliamo di livelli dimezzati rispetto agli inizi del 2019. Alla base di questo trend preoccupante vi è la siderale distanza tra il cambio ufficiale e quello che vige sul mercato nero. Il primo si attesta intorno a 86,5 pesos contro un dollaro, il secondo arriva a 155. Questo significa che la valuta emergente viene tenuta di gran lunga più forte di quanto non sia effettivamente, al fine di contenere l’inflazione, ormai stabilmente tra il 35% e il 40%. Ma ciò prosciuga le riserve, tenendo alte le importazioni e colpendo le esportazioni.

Lo swap proposto da YPF sarebbe solamente un assaggio di quanto potrebbe accadere presto in tutto il mercato dei corporate bond locale. La penuria di valuta straniera disponibile comporterà problemi nei pagamenti a favore dei creditori esteri un po’ per tutti. Da qui, un allarme default generalizzato, che stavolta riguarderebbe il settore privato. E così, i prezzi delle obbligazioni YPF sono precipitati lungo l’intera curva. Ad esempio, il “callable” dicembre 2047 in dollari e cedola 7% (ISIN: USP989MJBN03) è crollato dagli oltre 73 centesimi del 4 gennaio scorso ai 57,5 di venerdì. Peraltro, parliamo di una società dalla storia travagliata negli ultimi anni. Nata nel 1922, negli anni Novanta era stata privatizzata, ceduta alla spagnola Repsol. Nel 2012, il governo di Cristina Fernandez de Kirchner l’ha rinazionalizzata, pagando per il 51% di Repsol 5 miliardi di dollari, quando oggi l’intera società in borsa vale meno di 2,5 miliardi al cambio ufficiale, appena 1,3 miliardi a quello vigente sul mercato nero.

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