Il rendimento del BTp a 10 anni è arrivato al 2,40% a marzo, quando le tensioni finanziarie globali sull’onda dell’emergenza Coronavirus toccarono il picco. Ieri, risultava sceso allo 0,99%. In termini di prezzo, parliamo di un balzo del 14%. E più si allunga lo sguardo sulle scadenze più longeve e più nitidi si mostrano i guadagni del nostro mercato sovrano negli ultimi mesi. Due sono stati i fattori decisivi di sostegno. Il primo è la discesa in campo della BCE a supporto dei debiti sovrani e corporate dell’Eurozona sin dalla seconda metà di marzo, attraverso il potenziamento del “quantitative easing” e il varo di un piano di acquisti straordinari, noto come PEPP.

E da maggio ha contribuito positivamente anche il dibattito dei governi attorno alla nascita del “Recovery Fund”, fissato in 750 miliardi di euro e percepito dagli investitori come una prima forma di mutualizzazione del debito, pur solo per una fase eccezionale come questa.

Potremmo ritenere che i BTp abbiano toccato l’apice e che i rendimenti italiani d’ora in avanti siano solo destinati a risalire. Nulla di più sbagliato. Escludendo per il momento tensioni di tipo politico a Roma, le quali rimangono in agguato per subito dopo l’estate, bisogna considerare che la curva delle scadenze italiana abbia toccato rendimenti minimi inferiori. Si pensi, ad esempio, che a inizio del settembre scorso, nei giorni della nascita del governo Conte-bis, il rendimento del BTp decennale scese fino allo 0,83%. E allora, al netto dell’inflazione, valeva solo lo 0,44%, meno di mezzo punto percentuale.

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Corsa BTp non finita, salvo tensioni

Oggi, siamo dinnanzi a circa l’1%, a fronte di un tasso d’inflazione negativo. Il rendimento reale, quindi, risulta in area 1,20%, quasi il triplo dei minimi recenti. E se l’inflazione in Italia e nell’Eurozona restasse ai livelli attuali anche nei prossimi mesi, si avrebbero due conseguenze: i BTp diverrebbero ancora più remunerativi, dati i prezzi al consumo in calo; la BCE sarebbe costretta almeno ad allungare l’accomodamento monetario, se non di potenziarlo per rinvigorire le aspettative d’inflazione nell’area.

Nell’uno e nell’altro caso, dovremmo attenderci nuovi acquisti a riversarsi sull’Italia, con gli investitori a caccia di “yield” e confortati dal sostegno europeo ai nostri bond, i quali verrebbero percepiti ancora meno a rischio, malgrado i bassi rating sull’orlo della caduta in area “junk”. E proprio l’abbassamento dei rischi giocherebbe un ruolo decisivo, se è vero che tutt’ora lo spread con Spagna e Portogallo si aggiri sui 75 punti base. In altre parole, il mercato pretende rendimenti intorno all’1% dall’Italia, accontentandosi di circa lo 0,25% da Madrid e Lisbona. Gli stessi bond della Grecia viaggiano su livelli di rendimento molto simili a quelli italiani, persino inferiori sul tratto ultra-lungo della curva.

Per concludere, esistono ulteriori margini di crescita per i titoli di stato italiani, cosa che non implica che necessariamente si materializzino. A differenza del resto del Sud Europa, Roma non gode di stabilità politica e, anzi, il suo governo viene ritenuto il più a rischio di tutta l’Eurozona, specie con le tensioni sociali, economiche e partitiche che si prevedono per l’autunno. Da qui, la possibile scure delle agenzie di rating, che ad oggi ci hanno risparmiato ulteriori dolori. Sul piano strettamente finanziario, però, la corsa dei BTp non sarebbe finita.

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