L’inflazione in Turchia non accenna a decelerare la sua corsa e a gennaio è salita ulteriormente a poco meno del 15% (14,97%) dal 14,6% del mese precedente. Ma i recenti guadagni del cambio potrebbero averla già fatta culminare. In effetti, la lira turca si è rafforzata quest’anno già di quasi il 5% contro il dollaro e del 17% dai minimi storici toccati a novembre, tornando ai massimi dal luglio scorso. A contribuire all’appezzamento vi sono state le dichiarazioni del governatore Naci Agbal nel corso della sua prima intervista da quando è stato nominato dal presidente Erdogan a capo della banca centrale.

Il banchiere ha confermato che non vi sarà alcun taglio dei tassi precipitoso nei prossimi mesi e che, anzi, il costo del denaro potrà anche essere rialzato ulteriormente nel caso in cui l’inflazione continuasse a salire. Agbal ha ammesso che l’allentamento monetario prematuro del 2018 avrebbe colpito l’economia turca, pur mostrandosi ottimista circa il graduale ripristino della credibilità tra i cittadini, i quali stanno lentamente tornando a preferire la lira al dollaro. In valuta americana, hanno accumulato ad oggi risparmi per 236 miliardi, circa un terzo del PIL.

Secondo l’istituto, a fine anno l’inflazione dovrebbe attestarsi al 9,4%, un livello ancora particolarmente elevato, specie in una fase in cui il pianeta viaggia sull’orlo della deflazione pressoché ovunque, anche per effetto dei bassi prezzi delle materie prime. E le stime ufficiali dicono anche che per centrare l’obiettivo della stabilità dei prezzi, ossia di un tasso d’inflazione al 5%, si dovrà attendere il 2023. Sarebbe la prima volta dal 2011. Ad ogni modo, da quando Agbal è in carica, cioè da tre mesi, le riserve valutarie turche sono già aumentate di 13 miliardi a 53,367 miliardi nel tardo gennaio. E cosa ancora più importante, il banchiere ha spiegato che non sta puntando su nuove operazioni di “swap” valutario per rimpinguarle.

Il messaggio per i mercati sarebbe chiaro: la banca centrale non cerca scorciatoie per tornare a tagliare i tassi troppo presto.

La Turchia non ha alzato i tassi ieri, ma il governatore ha convinto i mercati

Rendimenti alti e incognita Erdogan

Resta l’incognita Erdogan, che è tornato ad attaccare la politica degli alti tassi. Gli investitori temono che ciò pregiudicherà ancora una volta la tempistica della politica monetaria, ovvero che il taglio dei tassi arriverà troppo presto e l’inflazione resterà elevata. Nella giornata odierna, i rendimenti sovrani a 2 anni risultano saliti al 14,82%, il livello massimo dal 6 novembre, quando Agbal s’insediava come nuovo governatore. Il decennale offre, invece, il 13,05% e in questo caso siamo ai massimi dal 20 gennaio. Queste cifre ci segnalano che il mercato sconterebbe una stretta duratura e livelli d’inflazione a lungo termine ancora troppo alti.

Passando alle obbligazioni in dollari, abbiamo che il bond a 10 anni, scadenza 15 gennaio 2031 e cedola 5,95% (ISIN: US900123DA57), offre un rendimento del 5,34%, mentre il quinquennale che verrà rimborsato il 16 febbraio 2026 e con cedola 5,25% (ISIN: XS1909184753) si attesta al 3,07%. Anche al netto del rischio di cambio, trattasi di livelli elevati, pari a spread rispettivamente di 420 e 295 punti base rispetto ai Treasuries della medesima durata. In teoria, questi rendimenti per un investitore dell’Eurozona risulterebbero più che sufficienti per compensare l’atteso apprezzamento del cambio euro-dollaro. D’altra parte, affinché il rischio di credito venga considerato contenuto, bisognerà attendere che le riserve valutarie, crollate dei tre quarti da inizio 2020, risalgano e la lira si stabilizzi. Se questa continuasse a deprezzarsi, il debito in valuta estera diverrebbe per Ankara sempre meno sostenibile, per quanto complessivamente basso rispetto al PIL.

E’ arrivato il momento di tornare a investire sui bond in Turchia?

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