Ieri, il presidente Joe Biden ha svelato il suo piano infrastrutturale da 2.000 miliardi di dollari in 10 anni. L’intento consiste nell’offrire sostegno all’economia americana, stimolandone il tasso di crescita nel medio-lungo periodo. E l’inquilino della Casa Bianca vorrebbe che a beneficiarne fosse perlopiù il ceto medio. A copertura parziale della spesa, vi saranno aumenti delle imposte principalmente sulle imprese, con la “corporate tax” a salire dal 21% al 28%, pur sotto il 35% dell’era pre-Trump. Inoltre, le imprese si vedranno tassati gli utili maturati all’estero almeno al 21%.

L’aliquota più alta dell’imposta sui redditi delle persone fisiche verrà nuovamente portata dal 37% al 39,6%. Quella che si annuncia come la più forte stangata fiscale dall’era Clinton dovrebbe introitare nelle casse federali sui 1.000 miliardi nell’arco di un decennio.

L’America di Biden vara la più grande stangata fiscale dall’era Clinton, così fa un regalo alla Cina

Quali saranno le conseguenze di questo piano sui mercati finanziari? Uno spunto ce lo sta offrendo già il comparto obbligazionario. Il Treasury a 10 anni oggi rende l’1,75%, il livello più alto da inizio 2020, quasi il doppio di quello di apertura di quest’anno. Pur sotto i massimi toccati nel mese scorso, anche la scadenza a 30 anni si è fortemente deprezzata, spingendo il rendimento al 2,42-3%, dall’1,65-6% di inizio anno.

L’impatto sui bond USA

Il rialzo dei rendimenti sovrani americani si spiega in diversi modi. Il primo è che l’ulteriore stimolo fiscale di questa amministrazione, che arriva a meno di un mese di distanza dai 1.900 miliardi di dollari approvati dal Congresso e che porta il totale degli aiuti federali a famiglie e imprese a quasi 5.000 miliardi in era Covid, sosterrebbe le aspettative d’inflazione. Per quanto i 2.000 miliardi verrebbero spalmati in 10 anni, senza dubbio contribuirebbero a sostenere la crescita del PIL USA e, di conseguenza, i tassi d’inflazione, ergo anche d’interesse.

Il condizionale è d’obbligo, visto che il contestuale maxi-aumento delle imposte remerebbe contro la crescita, spingendo le multinazionali a continuare a delocalizzare, anziché ad accorciare le catene di produzione nell’era post-Covid.

Secondariamente, circa la metà del piano verrebbe finanziato in deficit, gravando ulteriormente sul già altissimo debito pubblico americano. Le emissioni di Treasuries aumenteranno nei prossimi anni, un fatto che inevitabilmente creerà pressioni sulla domanda. Terzo, la percezione del rischio si affievolirebbe ancora di più. Tutto ciò che dà una mano alla prima economia mondiale mette di migliore umore gli investitori e incentiva l’acquisto di assets più rischiosi e la vendita di quelli “safe” come i titoli di stato USA.

Infine, non sarebbe forse marginale neppure la stangata a carico del mondo corporate a stelle e strisce. Minori gli utili netti disponibili, minore la liquidità aziendale che potenzialmente verrebbe impiegata per acquistare Treasuries, specie quella a breve termine. E proprio l’aumento della “corporate tax” colpirebbe anche i titoli azionari, deprimendo l’utile atteso nei prossimi anni, ceteris paribus. Per contro, a giovarsene sarebbero le obbligazioni più ad alto rischio, cioè le “high yield”, i cui rendimenti medi forse non a caso stanno iniziando a stabilizzarsi nelle ultime sedute dopo un rialzo di quasi due mesi, sull’attesa di migliori condizioni per l’economia americana e, quindi, minori probabilità di default per le società finanziariamente più deboli.

Perché il rialzo dei rendimenti deprime le borse?

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