Mercoledì di questa settimana, la Turchia ha raccolto sui mercati internazionali ben 3 miliardi di dollari attraverso l’emissione di un nuovo bond islamico a 5 anni. Gli ordini hanno raggiunto quota 10,75 miliardi, più che triplicando l’importo offerto. Il successo dell’operazione è stato reso possibile grazie all’elevata domanda arrivata dagli investitori degli Emirati Arabi Uniti. Il “sukuk”, stando alla denominazione utilizzata per descrivere questa tipologia peculiare di obbligazioni, ha scadenza a 5 anni e offre cedola fissa del 7,25%. Alla vigilia dell’emissione, si parlava di un tasso d’interesse tra 7,5% e 7,625%.

Il bond islamico funziona grosso modo così: l’obbligazionista riceve una remunerazione sulla base dei guadagni che il debitore riesce a realizzare investendo il capitale raccolto. Questo in conseguenza del divieto imposto dalla religione islamica di prestare denaro dietro interessi. Con questo meccanismo, si cerca di coniugare la necessità del mercato di reperire capitali e quella degli obbligazionisti di ricevere un rendimento, entrambi formalmente senza infrangere la “sharia”.

L’operazione di questa settimana evidenzia il legame sempre più stretto tra Ankara e Abu Dhabi. Agli inizi del mese, la banca centrale turca ha ricevuto dalla controparte emiratina 4,7 miliardi di dollari attraverso un contratto “swap”. Ha così potuto rimpinguare le proprie riserve valutarie, salite in una sola settimana di 5,8 miliardi a 16,33 miliardi. Le riserve nette, tuttavia, a fine gennaio ammontavano a soli 7,55 miliardi, dato minimo da 20 anni a questa parte. L’istituto sta “bruciando” i dollari in cassa per sostenere la lira turca, travolta dalle vendite negli ultimi mesi. Nelle ultime settimane, il tasso di cambio contro il dollaro risulta stabilizzato attorno a 13,50. Ieri, viaggiava poco oltre 13,60.

Bond islamico un successo, ma criticità restano

A proposito, ieri ha tenuto invariati i tassi d’interesse per la seconda volta consecutiva al 14%, nonostante l’inflazione a gennaio sia salita al 48,7%, ai massimi dal 2002.

Tra settembre e dicembre, il governatore Sahap Kavcioglu li ha tagliati dal 19%, scatenando un collasso del cambio (-44% nel 2021) e l’esplosione dell’inflazione. Per evitare di acuire tali fenomeni, l’allentamento monetario è stato sospeso. Gli analisti si aspettano che si tratti di una pausa e non di un’inversione di tendenza. D’altronde, la banca centrale è ormai priva di credibilità. Il successo registrato dal bond islamico appena emesso non deve farci perdere di vista la politica monetaria disfunzionale praticata in questi anni su volontà del presidente Erdogan, nemico giurato dei tassi.

Probabile che Kavcioglu desideri attendere fino alla tarda primavera prima di riprendere a tagliare i tassi, cioè quando l’atteso afflusso dei turisti stranieri aumenterebbe l’ingresso di valuta estera. Non è detto che accada, né che basti. Le tensioni geopolitiche in Europa potrebbero tenere alla larga proprio i cittadini russi dal viaggiare quest’anno, infliggendo un duro colpo al turismo anatolico. Ad ogni modo, la banca centrale ha svelato al mondo di non credere alle sue stesse dichiarazioni ufficiali. Se fino a qualche mese fa era convinta che tagliare i tassi fosse la giusta risposta al boom dell’inflazione, perché arrendersi?

La scorsa settimana, l’agenzia Fitch ha tagliato il rating dei bond turchi da BB- a B+, intravedendo rischi fiscali dalle politiche del governo. Questi ha tra l’altro annunciato il taglio dell’IVA dall’8% all’1% sui generi di prima necessità e interventi contro il caro bollette. Fenomeni comuni al resto del mondo, ma acuiti dal collasso della lira turca, a sua volta provocato dal taglio dei tassi. Per non parlare del nuovo schema sui depositi bancari in lire, che nei fatti maschera un rialzo dei tassi a carico dei contribuenti.

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