Nel trimestre marzo-maggio, gli investitori hanno venduto circa 14 miliardi di dollari di debito pubblico del Messico. Per quanto in forte rallentamento, la caduta a maggio non è cessata sui mercati, a differenza di quanto avvenuto nel resto delle economie emergenti. Il fatto è che lo stesso governo teme e si aspetta che almeno una delle principali agenzie di rating declassi il Messico a “junk” o “spazzatura” dopo circa venti anni di permanenza nell’area “investment grade” ed entro i primi mesi dell’anno prossimo.

Ad oggi, Moody’s gli assegna il giudizio “Baa1”, S&P “BBB” e Fitch “BBB-“.

Tornare a investire in bond emergenti, forse non è ancora arrivata l’ora

La situazione del Messico è sostanzialmente simile a quella dell’Italia, vale a dire che il suo debito sovrano si colloca appena qualche gradino sopra il livello di giudizio speculativo. In un certo senso, sembra proprio che gli investitori abbiano scontato l’inevitabile, se è vero che in aprile il paese abbia emesso un bond in dollari con rendimento al 5%, superiore a quello che il Paraguay ha spuntato sul mercato, pur essendo un emittente “junk”.

Andando a controllare i rendimenti lungo la curva, ci accorgiamo che il quinquennale in scadenza nell’aprile 2025 e con cedola 3,90% (ISIN: US91087BAJ98) offre un rendimento del 2,56%, che il decennale aprile 2030 e cedola 3,25% (ISIN: US91087BAH33) viaggia a un rendimento del 3,40% e che la scadenza gennaio 2025 e cedola 5,55% (ISIN: US91086QBE70) sia al 4,30%, ossia rispettivamente a circa +225, +270 e +290 punti base rispetto alle omologhe scadenze americane. A titolo di confronto, i BTp in dollari con scadenze nel 2024, 2029 e 2049 rendevano venerdì rispettivamente il 2,04%, il 2,91% e il 3,90%, cioè qualcosa come circa mezzo punto in meno rispetto ai bond messicani. Eppure, anche i nostri titoli di stato sconterebbero sul mercato il rischio di diventare presto “angeli caduti” dell’obbligazionario.

Pesano i conti di Pemex

Secondo un asset manager di Franklin Templeton, Luis Gonzali, nel caso di declassamento il Messico arriverebbe ad offrire rendimenti più alti di adesso fino a 300 punti base, pur stringendo successivamente a +100.

In ogni caso, a rischio vi sarebbero titoli del debito pubblico per 40 miliardi di dollari, i quali diverrebbero oggetto di vendite da parte degli investitori. L’evento non passerebbe in sordina, trattandosi della seconda economia emergente latino-americana dopo il Messico. La presidenza di Andres Manuel Lopez Obrador ne uscirebbe indebolita ulteriormente sul piano della credibilità nella comunità finanziaria internazionale.

A riprova di quanto detto nelle scorse settimane, cioè che per rischiare il default non sia necessario essere iper-indebitati, si consideri che il rapporto debito/pil messicano nel 2019 ha chiuso al 46%, un terzo dei livelli italiani. Negli ultimi tempi, non sta giovando la politica economica interventista del presidente, che non ha mai negato la sua ispirazione marxista, tra cui la crisi finanziaria di Pemex, il colosso petrolifero statale, che sui mercati ha emesso oltre 100 miliardi di dollari di obbligazioni e che, a maggior ragione, dopo la devastante crisi delle quotazioni di questi mesi ha sempre minori probabilità di reggersi sulle proprie gambe. Dovesse necessitare di un salvataggio a carico dei contribuenti, peserebbe sui conti pubblici per circa il 9% del pil.

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