Se vi dicessimo che non vi sono solamente i green bond e che la green economy può apparire per certi versi superata come concetto? Ebbene, sì. Il mercato obbligazionario si sta trasformando a una velocità impressionante. Le prime obbligazioni verdi vennero emesse una decina di anni fa dalla Banca Mondiale e la Polonia nel 2016 fu il primo stato a collocarne sul mercato sovrano. Oggi, le emissioni superano i 1.000 miliardi di dollari, per quanto siano ancora una frazione quasi impercettibile degli oltre 100 mila miliardi di bond complessivamente emessi nel mondo.

Ma da qualche anno si sono affacciati sul mercato ESG (Environmental, Social and Corporate Governance) anche i cosiddetti “blue bond”, così chiamati perché puntano a sostenere la “blue economy”, che a sua volta riguarda la protezione dei mari e degli oceani e la pesca sostenibile. Le Isole Seychelles furono i primi emittenti nel 2018 con un bond da 15 milioni di dollari. Un anno dopo fu la volta della svedese Nordic Investment Bank, che raccolse in corone circa 200 milioni di euro per tutelare la biodiversità marina, sviluppare un sistema di trattamento dei rifiuti e prevenire l’inquinamento delle acque.

Ad oggi, il mercato dei blue bond è molto poco sviluppato, sebbene l’interesse della finanza e dei governi vada verso questa direzione. In un certo senso, potremmo affermare che si tratti di un comparto del mercato green. Non tutti concordano sull’opportunità che si sviluppi, almeno non autonomamente. In effetti, si corre il rischio di iper-segmentazione del mercato ESG, con la conseguenza di incappare in carenze di liquidità da un lato e in una scarsa standardizzazione delle emissioni dall’altro.

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L’ostacolo dell’assenza di collaborazione tra stati

Al mercato dei blue bond servirebbero criteri quanto più universali possibili per evitare soluzioni frastagliate, a detrimento della trasparenza e della stessa fiducia degli investitori (vedi “greenwashing”).

E non meno importante si rivela la collaborazione tra stati, ragione per cui probabilmente ancora questo segmento si mostra poco sviluppato. Le acque vanno per loro natura oltre le frontiere nazionali, per cui non avrebbe senso che un governo s’impegnasse a mantenerle pulite, se gli altri stati circostanti continuassero a inquinarle. Il problema si pone particolarmente in Asia, dove esistono numerosi stati che condividono le acque a distanza anche di pochi chilometri gli uni dagli altri.

Non a caso, la Asian Development Bank ha lanciato la Ocean Financing Initiative, alla quale destinerà fino a 5 miliardi di dollari entro il 2024. Sarebbe un grosso impulso per il mercato dei blue bond, sebbene non sia detto che altre parti del mondo trovino conveniente staccarlo dal resto dei green bond. L’Unione Europea sta da mesi emettendo social bond denominati come SURE, un programma che mira a finanziare il sostegno ai redditi degli stati comunitari durante la pandemia. A breve, inizierà a finanziare il 30% dei 750 miliardi del Recovery Fund attraverso green bond. Appare difficile che possa puntare nell’immediato a segmentare questo mercato con emissioni a parte, peraltro in assenza di una vera tassonomia globale riconosciuta. Come dire che i blue bond si trovino nella medesima condizione dei loro genitori verdi di quasi una decina di anni addietro.

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