Le emissioni di green bond hanno superato i 200 miliardi di dollari nel mondo nei primi nove mesi dell’anno, segnando una crescita del 12% rispetto allo stesso periodo del 2019. E dire che nel primo semestre avevano accusato una battuta di arresto, provocata dalla pandemia e dalla maggiore attenzione del mercato per gli strumenti di lotta al Covid-19. Dalle prime emissioni del 2007, il valore cumulato supera ormai i 1.000 miliardi. Malgrado ciò, per molte società le obbligazioni verdi rimangono un po’ misteriose.

Perché dovrei emetterle, ci chiede un manager italiano? Le motivazioni sarebbero diverse.

Anzitutto, bisogna capire se si ha predisposto un piano per l’abbattimento delle emissioni inquinanti. Se sì, sarebbe il caso di finanziarlo con questo strumento finanziario, cercando di spuntare sul mercato rendimenti più bassi di quelli che si sosterrebbero con un bond ordinario. Secondariamente, queste obbligazioni stanno diventando un prodotto di marketing implicitamente utilizzato dalle aziende per mostrarsi eco-sensibili, insomma pubblicità.

Considerate anche che crescono di giorno in giorno i fondi di investimento, che nello statuto inseriscono clausole di cosiddetta responsabilità sociale (ESG), cioè si vincolano a potenziare gli impieghi a favore di emittenti attivi nella difesa dell’ambiente, dei diritti sociali o che almeno si astengano dal puntare su business “indesiderati”, come produzione e vendita di armi, petrolio, etc. Dunque, trattasi di un segmento obbligazionario destinato a diventare sempre più liquido e agognato.

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Esiste la variante ibrida

Le emissioni di green bond, però, presuppongono una previa certificazione da parte di un ente terzo accreditato e il rispetto delle linee-guida del Climate Bond Initiative. I proventi della raccolta dei capitali dovranno essere utilizzati per centrare gli obiettivi descritti sul prospetto informativo. L’ente vigilerà sull’ottemperanza per tutta la durata dell’obbligazione, a garanzia delle finalità per cui hanno investito gli obbligazionisti.

Affinché gli obiettivi siano credibili e riscuotano la fiducia del mercato, molte società fissano penalità per sé stesse nel caso di parziale o totale non raggiungimento entro date stabilite. Come? Aumentano il tasso della cedola offerta. Ad esempio, se mi vincolo a tagliare le emissioni inquinanti del 20% entro il 2025, qualora per quella data non fossi riuscito a centrare il target, dal primo pagamento del 2026 la cedola salirebbe dal 2% al 2,50%, tanto per fare un esempio.

Resta il rischio di “greenwashing”, cioè di annacquamento degli obiettivi. Sono numerose le emissioni della cui genuinità il mercato dubita. Al contempo, molte realtà considerano i vincoli troppo stringenti, ragione per cui Enel nel 2019 ha lanciato il primo bond “ibrido” sul mercato obbligazionario mondiale, un’obbligazione a metà tra l’ordinario e il green. I proventi prioritariamente saranno impiegati per abbattere le emissioni inquinanti, ma non vi sarà alcun obbligo di perseguire tale obiettivo. Essi potrebbero essere deviati su altre finalità non eco-compatibili.

Criticabile che sia questo modus operandi, secondo molti analisti la compagnia italiana avrebbe aperto un mondo di opportunità per il potenziamento degli investimenti verdi, allentando gli obblighi che presidiano le emissioni propriamente green. Per contro, si rischia di scoprire a posteriori di avere investito in progetti che con la difesa dell’ambiente non abbiano alcunché da spartire.

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