E’ arrivato il gran rifiuto da parte di un nutrito gruppo di obbligazionisti dell’Argentina, in possesso di almeno il 25% dei bond emessi dal 2016 sotto le clausole più favorevoli volute dall’allora presidente Mauricio Macri e del 15% dei bond oggetto di scambio dopo il default del 2001. Il gruppo, che include AllianceBernstein, Amundi, Ashmore, BlackRock, BlueBay, Fidelity e T.Rowe Associates, ha respinto l’offerta avanzata dal governo di Buenos Aires, secondo la quale le cedole sarebbero tagliate del 62% e il capitale del 5,4%.

La proposta riguarda i 66,2 miliardi di dollari di debito sovrano argentino emesso sotto la legge americana in valuta straniera. I risparmi per lo stato ammonterebbero complessivamente a 41,5 miliardi, di cui per appena 3,6 miliardi derivanti dal taglio del valore nominale dei titoli.

Ecco il piano taglia-debito dell’Argentina

I creditori hanno riconosciuto le difficoltà finanziarie che sta attraversando da tempo il paese, tra alta inflazione, crollo del cambio, recessione e conti pubblici sballati, aggravate dalla crisi economica esplosa a livello internazionale per causa del Coronavirus. Tuttavia, non è stata accettata dal governo la loro richiesta di aggiustamenti fiscali più consistenti e finalizzati a rendere sostenibile il debito pubblico nel medio-lungo termine. E così, la trattativa tra le parti si mostra adesso tutta in salita, per quanto fosse prevedibile che sarebbe accaduto.

30 giorni al default?

Oggi, il governo dovrà pagare cedole per per 500 milioni di dollari su un bond incluso nell’elenco dei titoli sottoposti a ristrutturazione. Qualora la scadenza non venisse rispettata, scatterebbe un periodo di grazia di 30 giorni per onorare i pagamenti, decorso il quale formalmente l’Argentina andrebbe in default. E non si vede per quale motivo lo stato dovrebbe pagare, considerato che ormai sia conclamata la crisi fiscale che il paese vive e che, dal punto di vista dell’amministrazione Fernandez, sarebbe come darla vinta proprio ai creditori stranieri, che quest’anno vantano complessivamente pagamenti per 3,5 miliardi, denaro che Buenos Aires ha tutta l’intenzione di risparmiare.

Il problema è che con un assenso almeno temporaneo con gli obbligazionisti titolari del bond per un rinvio dei pagamenti si avrebbe il modo di evitare la dichiarazione formale di default, che avverrebbe in modo disordinato, rischiando di aggravare la condizione finanziaria già pessima del paese sudamericano. Il debito pubblico ammonta a 323 miliardi di dollari, di cui 140 miliardi sono dovuti allo stesso settore pubblico, principalmente la banca centrale, mentre 83 miliardi risultano emessi in valute straniera a favore del settore privato. E altri 44 miliardi di dollari sono dovuti al Fondo Monetario Internazionale, somma quest’ultima anch’essa oggetto di rinegoziazione.

Stando alla proposta, i nuovi bond che verrebbero emessi in sostituzione degli esistenti sarebbero denominati in dollari ed euro e recherebbero cedole tra un minimo dello 0,50% e un massimo del 4,875%, per una media del 2,33%, a decorrere dal 15 novembre 2022. Fino al 2023 non sarebbero previsti pagamenti di capitale o di cedole. Da registrare come i prezzi dei bond fossero saliti dopo la formalizzazione dell’offerta del governo, la quale era risultata meno dura del temuto, implicando basse perdite a carico del capitale e gravando perlopiù sul piano degli interessi.

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