Il caso Roma è esploso in maniera dirompente nel dibattito pubblico nazionale. La fine del commissariamento della Capitale, fissata per il 2021, coincide con la necessità già da oggi di decidere cosa fare dei debiti dell’amministrazione comunale, pari a oltre 12 miliardi di euro, di cui 3 di natura commerciale. Dei restanti 9 miliardi di esposizioni finanziarie, 1,4 riguardano il bond emesso nel 2003 dall’allora giunta Veltroni e che reca come scadenza il 2048, con cedola fissa del 5,345% (ISIN: XS0181673798). Di fatto, ogni anno frutta interessi passivi lordi per quasi 75 milioni di euro, quasi 30 euro per ciascun residente romano.

Il Movimento 5 Stelle avrebbe voluto accollare tale obbligazione allo stato dopo la fine del commissariamento, ma la Lega di Matteo Salvini ha detto “no”, sostenendo la linea del “o vale per tutti o per nessuno”.

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Alla fine, si è deciso di mantenere il debito a carico della città di Roma. Gli obbligazionisti stanno reggendo la delusione, anche se è evidente che avrebbero preferito che il debito fosse appioppato al Tesoro, considerato un emittente più solido. E quest’ultimo, in virtù della sua posizione di maggiore forza negoziale, avrebbe potuto spuntare un minore interesse, di fatto ristrutturando il bond.

Il bond RomeCity rende poco più del BTp

Il RomeCity 5,345% 2048 è quotato alla Borsa del Lussemburgo e attualmente prezza 119,655, esitando così un rendimento lordo del 3,9%, che si confronta con il 3,3% dell’omologo per durata emesso dallo stato italiano. A ben vedere, non siamo di fronte a un rendimento così nettamente superiore a quello sovrano nazionale, ma resta il fatto che il bond sia stato emesso ormai 16 anni e mezzo fa a condizioni che attualmente risultano molto penalizzanti e che il Tesoro avrebbe modo di migliorare con una emissione a costi decisamente inferiori.

Ma Roma non è l’unica città italiana ad avere emesso un’obbligazione.

Tra comuni e province, ne risultano stati collocati sul mercato oltre 1.300. Il loro controvalore risultava alla fine del 2017 pari per i primi a 14,5 miliardi, per cui il solo bond capitolino pesava per un decimo dell’intero mercato dei cosiddetti BoC o Buoni ordinari Comunali. Il loro valore è in calo costante di anno in anno per una semplice ragione: non ne vengono emessi di nuovo, per cui man mano che arrivano a scadenza, i titoli in circolazione si riducono. Le ultime emissioni risalgono a ben prima della crisi finanziaria, vale a dire al 2005.

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Il declino dei BoC

Come mai i sindaci italiani non approfittano di uno strumento che consentirebbe loro di sganciarsi dalla dipendenza eccessiva verso le banche? Diciamo, anzitutto, che la normativa a cui fanno riferimento i BoC risale al 1994, legge 23 dicembre n.724, art.35. Contrariamente a quanto avviene per lo stato, i comuni possono emettere prestiti obbligazionari a determinate condizioni, tra cui: vincolare le risorse raccolte al finanziamento di progetti di investimento e non della spesa corrente; non versare in uno stato di dissesto finanziario; la regione non deve avere ripianato i disavanzi di amministrazione dell’ente emittente; l’emissione deve essere stata prevista dal bilancio di previsione.

Inoltre, la durata deve essere non inferiore ai 5 anni, l’emissione deve avvenire alla pari e la cedola offerta deve essere non superiore al punto percentuale rispetto al rendimento lordo esitato dall’ultima emissione di pari durata dello stato. Per intenderci, se oggi il Tesoro emette un BTp a 10 anni al 2,5%, un qualsiasi sindaco non potrà emettere un BoC con cedola superiore al 3,5%. Il problema sta essenzialmente qui: il crollo dei tassi ha sì beneficiato lo stato, ma gli enti locali non possono approfittarne, perché difficilmente troverebbero domanda sufficiente sul mercato per i loro bond a rendimenti così bassi.

Chi mai finanzierebbe questo o quel comune a rendimenti che a malapena coprono dall’inflazione, quando è noto che le finanze pubbliche locali versino complessivamente in cattive acque?

Vero, i prestiti obbligazionari non rientrano nella massa passiva che gestirebbe il commissario nel caso di dissesto, essendo per loro prevista la garanzia della delegazione di pagamento, come da art. 206 del Testo Unico degli Enti Locali (T.U.E.L). Ma se la liquidità in cassa risultasse insufficiente, i rischi continuerebbero a sussistere a carico degli obbligazionisti. In fondo, Roma difficilmente verrebbe fatta fallire dallo stato, perché essendo la prima città per numero di abitanti, oltre che la Capitale d’Italia, un suo default darebbe troppo nell’occhio sui mercati finanziari e scatenerebbe conseguenze negative anche per i BTp. Discorso diverso per gli enti meno importanti, ai quali per questo verrebbe richiesto un rendimento extra decisamente superiore rispetto al massimo di 100 punti base consentito dal T.U.E.L.

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