Il colosso internazionale delle auto a noleggio Hertz è a un passo dal fallimento. La società ha comunicato di non essere stata in grado di pagare i canoni di leasing operativo in data 27 aprile e, a questo punto, avrà tempo fino al 4 maggio per trovare un accordo con i creditori, altrimenti sarà costretta a portare i libri in tribunale. Parallelamente, sta negoziando una nuova linea di credito con le banche, mentre non è escluso che il governo americano inserisca la società tra quelle che riceveranno parte dei 2.300 miliardi di dollari di aiuti votati dal Congresso per salvare le imprese in crisi per l’emergenza Coronavirus.

In tutto, il debito di Hertz ammontava a 17 miliardi di dollari alla fine del 2019, quasi il doppio dei 9,3 miliardi di fatturato e pari a 15,8 miliardi netti. Di questi, 13,4 miliardi sono prestiti obbligazionari garantiti dai veicoli, 3,7 miliardi altri prestiti societari e obbligazioni. Il crollo della mobilità internazionale e all’interno degli stati ha mandato in malora il business della società, che è attiva proprio in quel segmento che offre un servizio a sostegno degli spostamenti di turisti, lavoratori e manager. Non a caso, il rating ha subito declassamenti plurimi nelle ultime settimane, fino al taglio di Moody’s a “Caa3” del venerdì scorso. Il debito di Hertz è, quindi, considerato “spazzatura” e prossimo al default.

In effetti, il fatturato ridotto al lumicino nemmeno lontanamente può tenere testa ai costi e gli 865 milioni di liquidità disponibile alla fine del 2019 risultano decisamente insufficiente per coprire il fabbisogno finanziario. A inizio aprile, oltre un quarto dei dipendenti era stato licenziato, qualcosa come 10.000 lavoratori. Nel caso di salvataggio pubblico o di accordo con le banche, però, il debito di Hertz diverrebbe appetibile ai prezzi attuali, sebbene corra il serio rischio di subire una qualche forma di ristrutturazione.

Il mercato fiuta il default

Questo sembra scontare il mercato, se è vero che le obbligazioni in scadenza 15 ottobre 2021 e cedola 4,125% (ISIN: XS1492665770), emesse formalmente dalla sussidiaria olandese, a una quotazione inferiore a 59 centesimi offrano ormai un rendimento annuo del 55%.

Peggio stanno facendo le “callable” 1 gennaio 2022 e cedola 7,625% (ISIN: USU42804AQ45), sprofondate in area 42 centesimi e che rendono il 100%. Spostandoci avanti di un anno, il titolo che scade il 30 marzo 2023 con cedola 5,50% (ISIN: XS1790929217), anch’esso emesso dalla holding con sede in Olanda, quota sotto 58 centesimi e offre un rendimento di poco inferiore al 35%. Infine, il titolo 15 ottobre 2024 e cedola 5,50% (ISIN: USU42804AP61) è imploso a poco più di 19 centesimi, rendendo oltre il 121%.

Inutile puntualizzare che, pur essendo emesse in dollari, le suddette obbligazioni presentano un rischio di cambio risibile rispetto ai livelli di rendimento esitati e, a loro volta, conseguenza di un rischio di credito elevatissimo, perché davvero si rischia il default, seguito eventualmente da un accordo con i creditori per allungare le scadenze, abbattere le cedole e, data la situazione, per sospendere i pagamenti per il prossimo futuro.

[email protected]