Il cambio euro-dollaro questo venerdì ha superato 1,19, guadagnando così circa l’11,5% dai minimi toccati a marzo e salendo ai livelli più alti da due anni a questa parte. Nel frattempo, i rendimenti dei bond governativi nell’Eurozona stanno scendendo ancora, con il Bund a 10 anni a offrire il -0,55%, ai minimi da 3 mesi. Bene anche i BTp, i cui decennali restano sotto l’1% e ieri si aggiravano in area 0,97%. Di fatto, lo spread BTp-Bund a 10 anni si è portato sui 150 punti base.

Eppure, i dati macro provenienti dall’area sono tutt’altro che positivi: pil in caduta a doppia cifra ovunque nel secondo trimestre, sebbene gli USA guidino le classifiche del tonfo con il -32,9% annualizzato.

La moneta unica si sta apprezzando essenzialmente per due ragioni, che stanno avendo implicazioni anche per il mercato obbligazionario dell’area. La prima è che il dollaro risente negativamente del prolungarsi della crisi sanitaria negli USA, la quale rischia di impattare sull’economia americana per un lasso di tempo superiore alle attese. La seconda riguarda il “Recovery Fund”, che per quanto arriverebbe tardivo e probabilmente sotto-dimensionato, rappresenta pur sempre la prima risposta comune di tutto il Vecchio Continente a una crisi.

Bond Eurozona, quali effetti a breve e medio termine del Recovery Fund

Verso un maggiore allentamento monetario

I flussi dei capitali si stanno dirigendo nell’Eurozona, rassicurati per il minore rischio di rottura percepito dopo l’accordo intergovernativo sul fondo. A differenza del 2010-’11, quando la Commissione europea affrontò la questione per singolo stato con appositi “bail-out”, stavolta si punta a offrire a tutti una copertura per evitare frammentazioni finanziarie e politiche.

Ma il rally dell’euro è al contempo causa e conseguenza dell’apprezzamento dei bond nell’area. Da un lato, gli acquisti proprio di obbligazioni sovrane e corporate stanno sostenendo il cambio, dall’altro il rafforzamento di quest’ultimo spinge il mercato a scontare un accomodamento monetario della BCE più longevo.

In effetti, un euro più forte significa più bassi costi per i beni importati, cioè un’inflazione attesa ancora più lontana dal target per i prossimi mesi e nel medio termine. Per questo, Francoforte dovrà verosimilmente potenziare gli stimoli monetari o accettare che la loro durata sia più lunga di quanto sin qui scontato dagli investitori, al fine di ancorare le aspettative d’inflazione attorno all’obiettivo.

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Benefici dell’accordo sul Recovery Fund

Se tutto questo è vero, i rendimenti dei bond non possono che scendere ulteriormente. In primis, perché nel breve termine incorporano aspettative d’inflazione più basse e secondariamente per il maggiore grado di allentamento monetario che il “super” euro lascia ipotizzare, attraverso acquisti più corposi e/o più duraturi di bond sui mercati da parte della BCE.

Le cattive notizie sul fronte macro abbiamo imparato da tempo che si rivelano buone notizie per gli investitori, tranne che per i paesi dell’Eurozona fiscalmente più deboli. Eppure, proprio l’accordo sul Recovery Fund ha parzialmente rimescolato le carte, perché adesso si teme molto meno di qualche mese fa per la sostenibilità del debito pubblico italiano. I “credit default swaps”, misuratori del rischio sovrano, sui 5 anni costavano l’altro ieri 151,50 punti base per i BTp, molto meno dei 265 toccati a marzo e aprile sulle tensioni esplose per il Covid.

In un certo senso, adesso che l’Eurozona viene percepita come un’area meno atomizzata e più solidale al suo interno, persino l’Italia inizia a partecipare ai benefici, pur in misura assai minore degli altri partner, derivanti dal deterioramento macro, che spinge il mercato a rifugiarsi nei “safe asset”. Non che i BTp lo siano diventati (vedi lo spread più alto dell’area, insieme alla Grecia), solo che adesso appaiono meno rischiosi e più appetibili per i rendimenti elevati offerti.

Del resto, la scadenza 2067 offre ancora il 2%, quando i bond a 100 anni dell’Austria rendono appena mezzo punto percentuale.

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