La Turchia ha emesso sul finire della settimana scorsa obbligazioni di stato in dollari USA a 5 e 10 anni, la sua prima tranche duale dal 2007 sui mercati internazionali. Il bond 2025 ha cedola al 4,25% e ha esitato un rendimento del 4,45%, mentre quello 2030 ha cedola del 5,25% e rendimento iniziale del 5,45%. A conti fatti, i rendimenti si sono attestati su livelli di 284 punti base sopra l’omologo Treasury a 5 anni nel primo caso e di +386 sopra il Treasury a 10 anni nel secondo. Lo spread pagato da Ankara si è così ridotto ai livelli più bassi dalle emissioni nei primi mesi del 2018, prima che la tempesta finanziaria travolgesse la lira turca e il comparto obbligazionario, facendone impennare i rendimenti.

L’esito favorevole è stato assicurato dall’elevata domanda, che ha triplicato le dimensioni dell’offerta. E a sua volta, essa è stata trainata dalla caccia al rendimento di questa fase in tutto il mondo avanzato, sebbene l’accoglienza non sia stata esaltante nell’Eurozona, probabilmente a causa del rischio percepito di cambio. Il 51% degli ordini è arrivato dal Regno Unito, il 18% dagli USA, il 14% dell’Europa, il 10% dalla stessa Turchia e il 7% dal resto del mondo.

Stando alla guidance iniziale, il rendimento quinquennale si sarebbe dovuto attestare al 4,65% e quello decennale al 5,65%. Ad essersi occupati del collocamento sono stati Citi, Deutsche Bank, JP Morgan e Société Générale. Nell’intero 2019, le emissioni in dollari della Turchia hanno ammontato a 11 miliardi, ben più dei 7,5 miliardi dell’anno precedente, mentre nel 2017 erano state di 9 miliardi. Si pensi che nel marzo scorso, il decennale in dollari venne emesso con un rendimento del 7,15%, circa 454 bp sopra quello offerto al tempo dal Treasury.

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Inutile rammentare quanto i livelli siano ben inferiori a quelli offerti dai bond in lire turche, che sulla scadenza a 5 anni viaggiano all’11,10% e all’11,04% sui 10 anni.

La differenza è data dal rischio di cambio, con la lira turca ad avere perso quasi il 5% da quando il Coronavirus è diventato materiale per le cronache quotidiane, cioè in appena tre settimane. Contro il dollaro, la lira scambia adesso ai livelli più deboli dal maggio scorso. Proprio per impedire un suo ulteriore deprezzamento, l’authority bancaria ha da poco annunciato misure ancora più restrittive per le operazioni in valute straniere degli istituti. Queste – siano swaps, forward o spot – potranno essere condotte entro la misura massima del 10% del capitale, giù dal limite del 25% fissato nell’agosto di due anni fa.

Per effetto dell’annuncio, il bond 2038 in dollari e cedola 7,25% (ISIN: US900123BB58) perdeva nel pomeriggio odierno oltre il 3,3%. Ma anche le obbligazioni in valuta locale stanno perdendo quota nelle ultime sedute, conseguenza proprio dell’indebolimento del cambio. Il decennale rende 124 bp in più da fine gennaio, il quinquennale circa +100, bruciando i guadagni realizzati nell’ultimo mese.

Preoccupa gli investitori l’azzeramento dei tassi d’interesse reali, dopo che l’inflazione è risalita a gennaio al 12,15%, a fronte di un costo del denaro fissato dalla banca centrale all’11,25%, quasi l’1% più basso. Non solo questa politica monetaria rischia di rivelarsi errata per centrare l’obiettivo della stabilità dei prezzi, ma i margini di intervento appaiono al momento nulli, anzi non si possono escludere nuovi rialzi dei tassi nei prossimi mesi, qualora la fuga dei capitali portasse al sentore di tensioni finanziarie simili a quelle della primavera 2018.

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