Ieri, il rendimento sovrano indiano a 10 anni è salito al 6%, il livello più alto dagli inizi di giugno e considerato una soglia psicologica per il mercato obbligazionario, oltre che un test per verificare le mosse della Reserve Bank of India (RBI). A luglio, il bond era arrivato ad offrire un minimo del 5,76%. Poi, ci sono stati alcuni fattori che hanno remato contro ulteriori apprezzamenti dei titoli di stato. Anzitutto, l’inflazione è risalita al 6,93%, ai massimi da aprile, risentendo anche dell’interruzione della catena produttiva per via dell’emergenza Covid.

Questa sembra dilagare nel paese, sebbene meno che in altri grossi paesi come USA e Brasile, pur se sull’attendibilità dei numeri ufficiali nessuno ci metterebbe la mano sul fuoco.

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Secondariamente, il cambio tra rupia e dollaro continua a restare debole. Perde circa il 7,3% quest’anno, non tanto, ma non si nota un significativo miglioramento in coincidenza con il deprezzamento globale del dollaro. Considerando che il 6% offerto dal decennale sia un rendimento reale ancora negativo, ve ne sarebbe per dissuadere gli investitori dal puntare sull’obbligazionario del sub-continente asiatico.

In realtà, esistono alcuni punti a suo favore. Per prima cosa, date un’occhiata alle riserve valutarie ufficiali: 53,8 miliardi di dollari al 7 agosto scorso, in crescita di quasi 5 miliardi dalla metà di maggio. Non solo, la RBI non sta intervenendo sui mercati con le operazioni annunciate nei mesi scorsi a sostegno delle emissioni sovrane di 12.000 miliardi di rupie (160 miliardi di dollari) attese per quest’anno, come se stesse consentendo ai rendimenti di lievitare.

Dunque, in questa fase abbiamo una banca centrale che sta acquistando assets in valuta straniera sui mercati per rimpinguare le riserve e non sta sostenendo da tempo l’obbligazionario domestico. Come mai? Diverse le possibili spiegazioni. Prevale la sensazione che voglia attirare capitali, sfruttando i rendimenti relativamente alti dei titoli di stato e che stia creando una sorta di cuscinetto con cui ammortizzare eventuali deprezzamenti futuri del cambio e delle stesse obbligazioni domestiche, se le cose si mettessero male, come nel caso di un “downgrade” da parte delle agenzie di rating.

Possibili prospettive positive

La RBI vorrebbe, quindi, sostenere l’economia indiana con un cambio debole, evitando di sostenerlo nell’immediato. Si vocifera, poi, che i bond indiani verrebbero inseriti in un indice obbligazionario globale entro i primi mesi del 2021, un fatto che implicherebbe afflussi di capitali attesi per 20-30 miliardi di dollari. Se l’inserimento avvenisse davvero, la liquidità degli scambi aumenterebbe enormemente sul mercato secondario, a beneficio degli obbligazionisti. I rendimenti scenderebbero e all’appuntamento l’India ci arriverebbe già con un cambio debole e prezzi dei bond bassi. Il rafforzamento di entrambi sarebbero una benedizione per gli investitori, perché potrebbero ritrovarsi in breve tempo a detenere titoli dal valore ben più alto. Peraltro, d’ora in avanti dovremmo assistere a un ritorno agli acquisti della banca centrale per evitare che i rendimenti a lunga scadenza di allontanino troppo dal 6%.

Stiamo dicendo, cioè, che in un certo senso la RBI avrebbe accentuato e avvicinato temporalmente i fattori negativi che gravano sull’obbligazionario. I rischi non mancano. I tassi d’interesse risultano bassi, fissati solamente al 4%, 3 punti percentuali sotto l’inflazione. Con la ripresa dell’economia mondiale, probabile che la crescita dei prezzi al consumo acceleri ulteriormente un po’ ovunque, rendendo necessaria una stretta monetaria indiana per evitare deflussi dei capitali e ulteriore indebolimento del cambio. Per i bond, una brutta prospettiva. Se, invece, il peggio fosse alle spalle, un colpo di fortuna per chi entrasse d’ora in avanti sul mercato.

Perché il mercato fugge dai bond indiani, anche se rendono fino al 7%?

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