Dai primi dell’agosto scorso, subito rima delle elezioni primarie che anticiparono la vittoria netta del candidato peronista Alberto Fernandez in ottobre, i bond dell’Argentina hanno perso mediamente il 40% del loro valore. E adesso che a Casa Rosada vi è il nuovo presidente, la ristrutturazione del debito sovrano è diventata una certezza. La persegue esplicitamente il nuovo ministro dell’Economia, Martin Guzman, che pure ha rassicurato il mercato sull’intenzione di non applicare alcun “haircut”, il taglio del valore nominale delle obbligazioni di stato.

Egli ritiene, infatti, che Buenos Aires abbia un problema di liquidità, non di solvibilità del debito, sebbene avverta che senza risolvere i problemi dell’economia, i primi porterebbero al default vero e proprio.

I creditori dell’Argentina faranno i conti con quest’uomo

L’ipotesi del solo allungamento delle scadenze fa certamente tirare un mezzo sospiro di sollievo ai creditori privati, ma non in egual misura per tutti. Immaginate che il governo argentino chieda di rinviare tutte le scadenze di pagamento delle cedole e del capitale di 5 anni. Una cosa sarebbe essere titolari di un bond con scadenza nel 2021 e un’altra del bond che arriva a termine nel 2028. Nel primo caso, il sacrificio richiesto, apparentemente uguale, risulterebbe superiore. Il titolo con scadenza residua di 16 mesi, infatti, diverrebbe di 76 mesi, cioè moltiplicherebbe la sua longevità per quasi 5 volte. L’altro con durata residua di 97 mesi, invece, vedrebbe allungata la sua vita solo di 0,6 volte.

E così, si capisce meglio perché il bond aprile 2021 e cedola 6,875% (ISIN: US040114GW47), emesso in dollari USA, renda oggi oltre il 74%, mentre il gennaio 2028 e cedola 5,875% (ISIN: US040114HQ69) offra “solo” il 20,8%. Ancora meno rende il bond secolare con scadenza nel lontano gennaio 2117 e cedola 7,125% (ISIN: US040114HN39), che viaggia sul 16%. Vero, il mercato prezza i rischi incombenti, caricandoli perlopiù sulle scadenze più vicine, ma completa il discorso quanto appena spiegato sopra.

Come sarà la ristrutturazione dei bond?

Altra domanda: sarà una ristrutturazione uguale per tutti nelle modalità? Vi rimandiamo per un veloce approfondimento a un nostro articolo recente sul tema (leggi: Bond Argentina, rischi non uguali per tutti), aggiungendo che il mercato sembra essersi rassegnato all’idea che il governo proceda verso il “single-limb” per tutte le emissioni. Le Clausole di Azione Collettiva per i bond fino al 2015 prevedevano condizioni più restrittive per eventuali casi di ristrutturazione, necessitando il governo il parere favorevole di almeno l’85% di tutti gli obbligazionisti e dei due terzi dei titolari delle singole emissioni. Dal 2016, condizioni ammorbidite: basta l’ok dei due terzi in rappresentanza dell’intero debito e il 50% delle singole emissioni; in alternativa, il 75% dell’intero debito con unica votazione.

Logica vorrebbe che i creditori ristrutturati, ossia quelli che hanno già subito la ristrutturazione dei bond dopo il default del 2001, venissero risparmiati almeno stavolta. Tuttavia, risulta difficile crederlo. Gli strascichi giudiziari legati ai fondi “buitres” (“avvoltoi”), capitanati da Elliott Management, misero in evidenza come la disparità di trattamento tra gli obbligazionisti sia da considerarsi controproducente. E se Buenos Aires, al fine di attirare il consenso tra i detentori dei bond emessi fino al 2015 e per i quali servirebbe una doppia votazione con maggioranze favorevoli più larghe, offrisse loro migliori condizioni di quelle previste per i bond emessi dal 2016, i ricorsi fioccherebbero da ogni angolo del pianeta. Nel frattempo, l’Argentina rimarrebbe esclusa dai mercati finanziari e per rinnovare anche solo il suo debito interno, oltre alla monetizzazione parziale dovrebbe colpire i suoi stessi residenti.

Per tutte queste ragioni, si prevede che la ristrutturazione avverrà secondo una logica del “single-limb” estesa alle obbligazioni emesse fino al 2015 e che formalmente non autorizzerebbero una simile operazione. Per questo, il mercato pretende oggi rendimenti molto più alti dai titoli con scadenze ravvicinate, essendo le più colpite da un eventuale “roll-over”.

L’alternativa sarebbe ancora più dolorosa, ossia l’haircut, come nella Grecia del 2012. E nessuno vorrebbe arrivare a tanto, per cui alla fine anche i creditori privati più recalcitranti abbasseranno la testa.

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