I rendimenti obbligazionari sono morti da tempo, qualcuno inizia a vociferare che lo stesso mercato non sarebbe più in vita per effetto dell’enorme liquidità iniettatavi dalle banche centrali. In effetti, nelle scorse settimane circa un bond su tre nel mondo offriva rendimenti negativi. Nell’Eurozona, mediamente bisogna attendere la scadenza a 10 anni per iniziare a vedere il segno più, mentre l’1% quasi non esiste. E persino la Grecia, stato fallito e dalle condizioni economiche ancora spaventosamente depresse, ha emesso di recente titoli a 3 e 6 mesi con rendimenti rispettivamente negativi e nulli.

Grazie a questa tendenza, gli stati stanno potendo rifinanziarsi sui mercati a costi calanti, alleviando il peso degli interessi sul debito a bilancio e allungando le scadenze a costi contenuti.

Prendete l’Austria, che ha emesso nel settembre di due anni fa un bond con scadenza 2117 e cedola 2,10%. Se già allora sembrava un affarone, il meglio è arrivato quest’anno, quando il titolo è arrivato a scambiare sul mercato secondario a quasi 210, cioè su livelli più che doppi rispetto a quelli nominali, rendendo così fino a un minimo dello 0,47% e risalendo in questi giorni poco sopra lo 0,80%. Per quanto Vienna debba continuare a pagare agli obbligazionisti cedole molto più alte dei rendimenti attualmente in vigore, con le emissioni delle nuove tranche riesce a incassare più capitali del valore nominale dei bond. Ad esempio, se oggi emettesse i titoli secolari, incasserebbe 1,69 miliardi per ogni miliardo di maggiore indebitamento ufficiale. I 690 milioni in più abbatterebbero le esigenze di rifinanziamento future, riducendo le emissioni e, quindi, il debito pubblico.

Abbattere il debito pubblico alzando le cedole dei bond

Anche l’Italia guadagna dai BTp ultra-lunghi

Discorso analogo in Svizzera, il cui bond 2064 rende il -0,08%, a fronte di una cedola a suo tempo fissata al 2%. Per questo, prezza a poco meno di 190, per cui il governo confederale oggi incasserebbe quasi il doppio del debito nominalmente emesso con questa scadenza.

E anche in questo caso, la differenza positiva ridurrebbe la liquidità necessaria per onorare gli altri debiti in scadenza.

Più attenuato il discorso per Giappone e Italia, pur per ragioni diverse. Il Giappone offre solo lo 0,50% per il suo bond 2059, il cui prezzo si attesta sul secondario a meno di 103, esitando un rendimento dello 0,47%. Le emissioni di questo titolo farebbero introitare oggi a Tokyo poco più del valore nominale. E il BTp 2067, emesso nell’ottobre 2016 con cedola 2,80%, oggi prezza 116 e rende il 2,27%. Poiché la curva dei rendimenti italiana resta ben più alta che nel resto dell’Eurozona, Grecia esclusa, il nostro governo non riesce ancora a capitalizzare al massimo dalle emissioni su questa scadenza longeva, mentre il discorso cambia con il trentennale: il BTp settembre 2049 veniva emesso per la prima volta solo nel marzo scorso con cedola 3,85%, ma oggi offre appena il 2%, prezzando sopra 141.

Questo significa che il Tesoro incassa circa 410 milioni in più per ogni 1 miliardo di BTp 2049 emesso, pur dovendo pagare una cedola annuale molto elevata, dato il contesto dei tassi sui mercati. Come capite, questi titoli longevi costano di più allo stato rispetto alle scadenze più brevi, ma allo stesso tempo fanno introitare maggiori proventi e consentono l’abbattimento delle esigenze di rifinanziamento. La caccia al rendimento premia proprio questi titoli, pur esponendo gli obbligazionisti alla maggiore volatilità futura, mentre così gli stati non solo riescono a consolidare i loro debiti, per giunta persino a ridurli, se con una politica accorta di emissioni capitalizzano al massimo dall’effetto prezzo.

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