Venerdì 8 maggio è scaduto l’ennesimo ultimatum fissato dal governo di Buenos Aires per raggiungere un accordo con i creditori esteri sul piano di ristrutturazione del debito pubblico denominato in valute straniere per un controvalore di quasi 67 miliardi di dollari. Ci sarà tempo fino ad oggi per trattare, dopo che l’amministrazione di Alberto Fernandez ha esteso ulteriormente il termine entro cui trovare un’intesa e in assenza della quale scatterebbe il terzo default argentino di questo millennio. In data 22 maggio, infatti, arriva a scadenza il periodo di grazia di 30 giorni su un pagamento da 500 milioni di dollari.

Senza il placet degli obbligazionisti, l’inottemperanza del governo farebbe scattare automaticamente l’evento creditizio.

I creditori rimangono indisposti ad accettare i termini del piano proposto dal ministro delle Finanze, Martin Guzman, in quanto considerato “sproporzionato” in relazione alle perdite che dovrebbero accusare, specie considerando che ad oggi ad essere non è stato deciso che vi partecipino pure i sottoscrittori delle obbligazioni di stato emesse sotto la legge locale.

Il piano prevede una moratoria di 3 anni, durante la quale l’Argentina sospenderebbe il pagamento sia degli interessi che del capitale; un taglio delle cedole a una media del 2,33% all’anno, un terzo del 7% medio ponderato odierno, pari a un risparmio cumulato di 37,9 miliardi; un taglio del 5,4% del capitale, per un risparmio complessivo di 3,6 miliardi. Secondo i calcoli effettuati dai fondi creditori riuniti in vari gruppi ai fini delle trattative con il governo, questa ristrutturazione comporterebbe perdite per circa il 70% del valore nominale dei bond, che non a caso sono scesi a prezzi fin sotto i 30 centesimi. Il bond a 100 anni, con scadenza gennaio 2117 e cedola 7,125% (ISIN: US040114HN39) ha chiuso le contrattazioni a 25 centesimi lo scorso venerdì, offrendo un rendimento del 31,60%.

Ecco il piano taglia-debito dell’Argentina

Le mancate alternative dei creditori

Queste valutazioni, tuttavia, presuppongono l’utilizzo di un tasso di sconto a doppia cifra, che se da un lato appare congruo, in considerazione dell’altissimo rischio sovrano, dall’altro non terrebbe conto che un Treasury a 30 anni oggi offra nemmeno l’1,40%.

E se l’alternativa di un mancato accordo è il default, non si capisce perché mai si debbano utilizzare criteri che nei fatti finiscano per sovrastimare i costi della ristrutturazione. Del resto, chi ha investito negli anni passati nel debito argentino lo ha fatto conoscendo l’elevato grado di rischio a cui si sarebbe esposto, data la storia recente a tutti nota. I rendimenti relativamente ghiotti ne erano semplicemente la spia.

Guzman sostiene che non sia possibile per l’Argentina sborsare un quinto della spesa pubblica complessiva solo per il pagamento degli interessi sul debito. Al contempo, ritiene che l’economia debba essere messa nelle condizioni di crescere per ripagare le esposizioni. Tutte considerazioni all’apparenza sensate, se non fosse che Buenos Aires di opportunità per ripartire e mettersi il passato alle spalle ne abbia avute fin troppe negli ultimi decenni, sprecandole tutte e mostrandosi un debitore incallito ed eternamente spendaccione, disordinato e moroso.

Non sperino i creditori di ottenere qualche sostanziale concessione dalle trattative last minute, perché il Fondo Monetario Internazionale, detentore di 44 miliardi di dollari di crediti anch’essi da rinegoziare, non accetterà mai di subire perdite, anche solo in forma di rinvii dei pagamenti, se non dopo che i creditori privati vi abbiano partecipato per primi e in misura maggiore. Paradossalmente, la crisi internazionale esplosa con l’emergenza Coronavirus e che sta impattando negativamente anche sull’economia argentina, aggravandone la recessione, è finita per dare una mano al governo in fase di trattative, offrendogli il pretesto per tirare la corda e mettere gli investitori dinnanzi alla realtà cruda dei fatti.

I creditori dell’Argentina contrari alla ristrutturazione del debito, default più vicino

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