I lavoratori italiani chiedono opportunità con retribuzioni adeguate

I lavoratori italiani hanno disertato il referendum; non chiedono diritti teorici, bensì opportunità con retribuzioni migliori delle attuali.
2 giorni fa
3 minuti di lettura
Lavoratori italiani in cerca di opportunità
Lavoratori italiani in cerca di opportunità © Licenza Creative Commons

Sono più di 16 milioni i lavoratori italiani alle dipendenze di una qualche impresa o del settore pubblico, più dei 12-13 milioni che domenica e ieri hanno votato “sì” al referendum sui quattro quesiti inerenti al lavoro. Già questo dato ci segnala quanto le tematiche portate avanti dai proponenti non abbiano fatto breccia proprio tra coloro alle quali erano state teoricamente rivolte. Ed è chiaro che ad avere risposto positivamente alla chiamata non siano stati solamente lavoratori dipendenti, comprendendo certamente numerosi inoccupati di ogni età e pensionati.

Lavoratori e piccole imprese

Perché il referendum è stato un flop? Al di là delle interpretazioni più squisitamente politiche, il dato da cui partire è uno: l’Italia ha più di 5 milioni di partite IVA. Si tratta di lavoratori cosiddetti indipendenti, cioè che non sono alle dipendenze di nessuno. Trattasi del 21,4% degli occupati totali, più di un quinto. Una percentuale superiore rispetto all’estero, che ci dice qualcosa sul carattere di noi italiani: amiamo aguzzare l’ingegno, specie quando le opportunità sono scarse; possediamo uno spirito tendenzialmente libertario e spesso insofferente alla subordinazione; ci piace metterci in gioco.

C’è un clima d’impresa diffuso in Italia, anche se a non accorgersene sono spesso le istituzioni. A fronte delle 221.000 grandi imprese attive sul territorio nazionale, ne esistono 4,9 milioni di piccole e medie dimensioni. Il numero di occupati in ciascuna di esse arriva al massimo a 50, così come il fatturato non supera i 50 milioni. Realtà che danno lavoro a circa 19,6 milioni di persone. Dunque, in media abbiamo che un’impresa italiana si compone di 4 dipendenti, compreso il titolare.

Concretezza al posto dei diritti teorici

Questi numeri ci aiutano a capire cosa sia successo ai seggi. In un sistema economico caratterizzato da micro- e piccole imprese, la percezione è diversa da quella che si ha nei contesti in cui sono presenti perlopiù grandi imprese. I diritti sono reclamati là dove esistono organizzazioni sindacali, che a loro volta prosperano tra le grosse realtà aziendali in cui i lavoratori sono numerosi e spesso neanche si conoscono tutti (e bene) tra loro e hanno scarse relazioni con il capo. Ammesso che riescano mai a vederlo o ne conoscano l’esistenza.

I lavoratori alle dipendenze delle piccole e medie imprese vivono diversamente la loro condizione. Hanno un rapporto spesso strettamente personale o persino familiare con il datore di lavoro. Si direbbe che sia il senso di gratitudine a svilire la cultura dei diritti. Non è proprio così. Quando in una piccola realtà aziendale lavorano in pochi, le informazioni circolano più intensamente. Gli stessi dipendenti hanno accortezza delle reali condizioni finanziarie e delle incombenze burocratico-fiscali a cui sono sottoposti i loro capi. E sono portati quasi naturalmente a solidarizzare con loro, in molti casi consapevoli che il vero nemico sia il parassitismo statale.

Stipendi bassi grosso problema

Parlare di diritti solamente teorici in un contesto come il mercato del lavoro italiano, può rivelarsi un boomerang.

E non si tratta di mancata coscienza di classe, marxianamente parlando. Al contrario, è presa di coscienza di come vadano nel concreto le cose. Questo non significa che i lavoratori italiani siano soddisfatti. Tutt’altro. La fuga dei giovani all’estero e la stessa scarsa occupazione nel confronto internazionale raccontano di un elevato grado di insoddisfazione. Di cosa? Essenzialmente dei carichi di lavoro eccessivi e delle basse retribuzioni. Passano sgobbando mediamente 109 ore all’anno in più dei loro colleghi tedeschi per guadagnare circa un quarto in meno.

Siamo l’unica economia OCSE in cui gli stipendi al netto dell’inflazione risultano diminuiti dal 1990. Lavorare oggi rende meno di 35 anni fa. C’è stata un’apparente inversione di tendenza l’anno scorso, quando i rinnovi contrattuali hanno dovuto prendere atto del boom dell’inflazione tra il 2021 e il 2023. Vedremo solo con il tempo se i lavoratori vedranno stabilmente migliorate le paghe. Ad essere migliorate sono state, invece, le opportunità. L’occupazione non è mai stata così alta: siamo a 2,2 milioni di posti di lavoro in più in dieci anni. Di questi, oltre 2 milioni in più di assunzioni a tempo indeterminato contro circa +340.000 contratti a tempo.

Lavoratori puniti da produzioni povere

Quando la CGIL sostiene che vi sia precarietà, probabilmente confonde lucciole per lanterne. Non è la stabilità del lavoro la vera emergenza di oggi, a differenza di alcuni anni fa. Sono gli stipendi a rendere precaria la vita dei lavoratori. La loro crescita è limitata dalla bassa produttività del lavoro, dipendente da molteplici fattori. Tra questi c’è lo zampino dello stesso sindacato, che predilige per ragioni di bottega le realtà “labour intensive”, anche se concentrate sulle produzioni povere ed esposte alla concorrenza (anche salariale) delle economie emergenti.

Qualcosa si sta muovendo in quei settori colpiti dal declino demografico come i servizi turistico-alberghieri. Minori lavoratori giovani disponibili spingono gli imprenditori ad alzare le paghe. I miglioramenti sono ancora limitati, ma l’assenza di alternative costringerà le imprese a proseguire su questa strada se non vorranno chiudere battenti. Una sorta di rivincita frutto del puro darwinismo e non certo per merito del “sistema Paese”. Anche per questo i lavoratori hanno disertato i seggi.

Non credono ai sindacati, che per decenni hanno latitato dove servivano, continuando a difendere i soliti noti e a strumentalizzare il loro ruolo per finalità politiche e di carriera personale.

[email protected] 

 

Giuseppe Timpone

In InvestireOggi.it dal 2011 cura le sezioni Economia e Obbligazioni. Laureato in Economia Politica, parla fluentemente tedesco, inglese e francese, con evidenti vantaggi per l'accesso alle fonti di stampa estera in modo veloce e diretto. Da sempre appassionato di economia, macroeconomia e finanza ha avviato da anni contatti per lo scambio di informazioni con economisti e traders in Italia e all’estero.
Il suo motto è “Il lettore al centro grazie a una corretta informazione”; ogni suo articolo si pone la finalità di accrescerne le informazioni, affinché possa farsi un'idea dell'argomento trattato in piena autonomia.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

abuso permessi 104
Articolo precedente

Sport nei giorni di permesso 104? La Cassazione dice no al licenziamento

quattordicesima
Articolo seguente

Pensionati italiani all’estero: la quattordicesima è solo per chi resta in patria?