La fame di rendimento ha spinto negli ultimi anni il mercato mondiale a spostarsi su assets sempre più rischiosi, se è vero che i corporate bond “high yield” in dollari offrano oggi poco più di quanto non offrissero una decina di anni fa gli “investment grade”. Le distanze tra i due comparti obbligazionari si sono di gran lunga ridotti e mentre oggi ben 7.000 miliardi di dollari di titoli governativi rendono sottozero, ecco spiegato il motivo principale per cui molti bond “spazzatura” siano finiti nei portafogli istituzionali. Curioso, in questo quadro, notare come il mercato australiano farebbe parziale eccezione. I suoi bond godono del rating tripla “A”, visto che il rapporto tra debito e pil nella terra dei canguri si attesta a poco sopra il 40% e che l’economia cresce ininterrottamente dal 1991, segnando un record mondiale.
Australia mai in crisi dal 1991, ecco svelato il mistero della crescita infinita
Il decennale australiano rende oggi il 2,03%, circa mezzo punto percentuale in meno dell’omologo BTp, ma si consideri che questi ultimi abbiano un rating “BBB”, praticamente a un passo dall’essere giudicati “spazzatura”. Un anno fa, le relazioni tra i due bond erano invertite: 2,93% i primi, meno del 2% gli italiani. Nell’ultimo anno, i rendimenti dei BTp si sono impennati, mentre quelli australiani sono crollati, grazie al +7% messo a segno dai prezzi decennali.
Ma se andiamo a guardare alle scadenze più brevi, ci accorgiamo che Canberra continua a offrire di più: l’1,7% gli annuali contro il poco più dello zero dei titoli del Tesoro di Roma; l’1,68% i quinquennali contro il nostro 1,48%, anche se già dai 6 anni insù, il rendimento italiano supera quello australiano.
Tassi più alti, ma rischi dal cambio
Come mai? La Reserve Bank of Australia (RBA) ha fissato da 30 mesi i tassi all’1,50%, il suo minimo storico. Dal novembre del 2011 li ha tagliati di 325 punti base. La BCE li tiene ancora azzerati e tali rimarranno almeno “fino alla fine di quest’anno”, stando all’ultimo comunicato ufficiale del board. Del resto, l’inflazione in Australia si attesta intorno al target da due anni, mentre nell’Eurozona lo ha centrato solo per alcuni mesi nel corso del 2018 per la prima volta dal 2013. E l’economia crescerà del 3% quest’anno, il doppio che da noi, se non di più. Lo stesso tasso di disoccupazione è sceso sotto il 5%. Dunque, l’Australia ha la necessità di tenere più alto il costo del denaro rispetto all’unione monetaria.
Stando così le cose, sembra che non vi sia alcun motivo per non puntare sui bond australiani, che rendono di più di quelli italiani fino alle scadenze medio-lunghe e offrono sul tratto a medio-lungo termine rendimenti nettamente superiori a quelli dei Bund, pur condividendo con questi ultimi la massima valutazione da parte delle agenzie di rating. Tuttavia, esiste il rischio di cambio. Il dollaro australiano si è apprezzato del 2% contro l’euro nell’ultimo anno e del 4,4% dal marzo 2014. Pertanto, chi ha investito ultimamente nei bond dell’Australia ha beneficiato di rendimenti allettanti e al contempo di titoli che, convertiti in euro all’atto del disinvestimento, hanno accresciuto il loro valore. La domanda è semmai se sarà ancora così anche per il prossimo futuro.
A tale proposito, bisogna ammettere che l’economia australiana, per quanto stia continuando a crescere a ritmi invidiabili per ogni altra grande economia avanzata, compresa quella americana, avverta qualche cedimento. Nell’ultimo trimestre del 2018, il pil pro-capite è di poco diminuito rispetto al trimestre precedente per la prima volta dal 2016, mentre il governatore Philip Lowe ha rivisto al ribasso dal 3,5% al 3% le stime di crescita del pil per quest’anno, avvertendo che un ulteriore rallentamento sarebbe in vista nel 2020. I maggiori rischi arrivano dalla Cina, mercato di destinazione di oltre un terzo delle esportazioni australiane, tra cui soprattutto materie prime. Poiché l’economia asiatica rallenta vistosamente anche a seguito delle tensioni commerciali con gli USA, ne sta risentendo pure Canberra.