In Italia la tassazione sugli interessi dei titoli di stato è davvero conveniente per gli investitori privati. L’aliquota è molto più bassa rispetto a quella applicata dagli altri paesi europei e, in generale, per altri strumenti finanziari. Si pensi soltanto che per i bond corporate (anche italiani) la tassazione è più del doppio rispetto a quella dei titoli di stato. Una distorsione che, secondo un recente studio dell’osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, potrebbe essere eliminata senza significativi effetti per l’intero mercato.

In questo modo, si eliminerebbe una disparità di trattamento rispetto alla tassazione prevista per altre forme di reddito. Vediamo meglio di cosa si tratta e quali potrebbero essere i possibili scenari.

L’aliquota sui rendimenti generati dai titoli di stato è pari al 12,5 per cento, ma ci sono delle eccezioni

Quante e quali tasse si pagano sui titoli di stato? Cominciamo col dire che i rendimenti generati dai titoli di stato sono tassati con un’aliquota molto più bassa rispetto ad altri strumenti finanziari (azioni o titoli obbligazionari societari).
In generale, i redditi finanziari vengono tassati per i soggetti IRPEF al 26 per cento, applicato direttamente dagli intermediari, che fungono da sostituti d’imposta. Per i Titoli di Stato, però, l’aliquota è pari al 12,5 per cento.
L’Italia, si legge nel report dell’Osservatorio CPI, “É uno dei pochi paesi europei che applica un’aliquota diversa sugli interessi dei Titoli di Stato rispetto alle obbligazioni societarie. La tassazione italiana dei Titoli di Stato è inferiore rispetto a quella applicata nella maggior parte dei paesi dell’UE (mediamente pari al 17 per cento), mentre è più alta per le obbligazioni societarie (26 per cento contro il 21 per cento in media)”.
La tassazione al 12,5 per cento, a ogni modo, si applica soltanto alle persone fisiche. Gran parte degli investitori sono sottoposti a un regime fiscale diverso.

In particolare:

  • i contribuenti che sono titolari di reddito di impresa sono tassati dall’aliquota IRPEF che si applica in base al reddito complessivo dell’attività commerciale in cui confluiscono gli interessi sui Titoli di Stato;
  • alle società di capitali e gli enti pubblici e privati diversi dalle società, gli interessi sui Titoli di Stato vengono tassati sulla base dell’aliquota IRES, attualmente pari al 24 per cento;
  • gli investitori esteri sono invece esenti dal pagamento delle imposte sui titoli pubblici italiani se provenienti da paesi della cosiddetta “White List”.

Cosa potrebbe succedere con un aumento dell’aliquota?

Per l’osservatorio sui conti pubblici italiani non ci sarebbe alcuna giustificazione in merito a questa disparità di trattamento fiscale.

“L’aliquota di tassazione dei Titoli di Stato è in gran parte irrilevante. Gli investitori sono infatti interessati al rendimento netto finale: poiché l’offerta di Titoli di Stato è rigida rispetto al tasso di interesse, una maggiore o minore tassazione sui Titoli di Stato verrebbe trasferita interamente sul rendimento richiesto al lordo della tassa. Ne consegue che i maggiori (o minori) incassi dello stato verrebbero compensati dalla maggiore (o minore) spesa sostenuta per il pagamento degli interessi: l’effetto totale risulterebbe pertanto nullo in ambito di conti pubblici”.

Bisogna anche considerare che gli investitori che fruiscono di questo “sconto” (chiamiamolo così) sono davvero pochi. Nel 2020 le famiglie italiane possedevano direttamente il 6,9 per cento e indirettamente il 12 per cento del debito pubblico, attraverso fondi di investimento, fondi pensioni e assicurativi per un totale complessivo investito in Titoli di Stato pari al 18,9 per cento del debito.

Proprio per questo motivo, il tasso lordo sui Titoli di Stato non dovrebbe risentire molto dell’aumento dell’aliquota dal 12,5 al 26 per cento.
Equiparare la tassazione a quella di altri strumenti finanziari, in particolare alle obbligazioni di società (oggi pari al 26 per cento), eliminerebbe però un ingiustificato vantaggio fiscale per i soggetti individuali che, attualmente, possono investire anche somme molto ingenti in Titoli di Stato.


Ricordiamo che tale trattamento fiscale si applica anche ai titoli di stati esteri appartenenti alla White list. Insomma, un doppio svantaggio. In questo caso, infatti, si crea un ulteriore danno indiretto alle imprese nazionali.
Per tutte queste ragioni, l’osservatorio sui conti pubblici italiani conclude che sia molto più vantaggioso aumentare l’aliquota dei Titoli di Stato. In particolare, si potrebbe ipotizzare un aumento dell’aliquota dall’attuale 12,5 per cento al 26 per cento, così come per gli altri strumenti finanziari.