Una settimana proprio no per i titoli di stato, non solo italiani. Ieri, il rendimento del BTp a 10 anni è esploso fino al 4,90%, praticamente a un soffio dalla soglia del 5%. Parliamo di un livello che non era stato più toccato sin dall’autunno di ben dieci anni fa. Eravamo alla fine del 2012 e al governo c’era il Prof Mario Monti. Un’altra era politica e finanziaria. Non c’era stato ancora il “quantitative easing” e Mario Draghi aveva da poco salvato l’euro grazie al suo “whatever it takes”.

Lo spread BTp-Bund decennale continua ad oscillare attorno ai 250 punti base o 2,50%. Rispetto alle ultime sedute pre-elettorali, siamo sì su livelli più elevati, ma non di così tanto. Dunque, il rendimento a 10 anni è esploso non già per un tracollo specifico dei BTp, quanto per l’esplosione dei rendimenti in tutta l’Eurozona.

Perché il rendimento a 10 anni sale

Ieri, il Bund a 10 anni è schizzato sopra il 2,30%. Ricordiamo che all’inizio dell’anno stava ancora sottozero. Cosa sta succedendo? La BCE ha espressamente dichiarato per bocca del suo governatore Christine Lagarde che alzerà i tassi d’interesse anche alle prossime riunioni del board. Una mossa che si rende necessaria per arrestare la corsa dell’inflazione, che nell’Eurozona tende ormai alla doppia cifra.

Il mercato sconta tassi BCE fino al 3,25% nei primi mesi del 2023. Ma potrebbe non essere tutto. I titoli di stato continuano a beneficiare degli acquisti di Francoforte sul mercato secondario. Ciò avviene con i reinvestimenti delle scadenze sia con il “quantitative easing” (QE) che con il PEPP. Nel secondo caso, la BCE dispone persino della flessibilità necessaria per sostenere i bond in crisi come i BTp, trasgredendo alla regola generale per cui gli acquisti debbano essere legati alle dimensioni economiche degli stati dell’area.

Ma con un’inflazione che non smette di correre, alla BCE si riflette da settimane sull’opportunità di mantenere invariata la liquidità sui mercati.

Servirebbe ridurla, cioè smettere di rinnovare gli acquisti per i bond in scadenza. Lo stanno già facendo Federal Reserve e Banca d’Inghilterra. Piaccia o meno, la realtà sta imponendo alla stessa BCE di seguirne le orme. Diminuire il bilancio dell’istituto significa sì puntare alla stabilità dei prezzi, ma chiaramente a discapito del mercato sovrano.

Allarme spread con taglio acquisti BCE

Se la BCE annunciasse lo stop ai reinvestimenti, il rendimento a 10 anni naturalmente esploderebbe ben oltre il 5%. Verrebbero meno acquisti di titoli di stato italiani per un paio di miliardi di euro al mese con il QE. Se, poi, lo stop riguardasse anche il PEPP, il colpo di grazia per l’Italia sarebbe duplice. Non solo perderemmo ulteriori acquisti per  di milia 3-3,5 miliardi al mese, ma oltretutto verrebbe meno una garanzia per i mercati circa la capacità dell’istituto di tenere a bada gli spread. A quel punto, servirebbe l’attivazione formale del nuovo scudo anti-spread o TPI. E non sarebbe né automatico, né incondizionato.

Infine, come abbiamo scritto ieri, un Bund a 10 anni a questi rendimenti inizia a mostrarsi allettante. Esso risulta essere sufficientemente remunerativo contro l’inflazione attesa nel medio-lungo periodo per l’Eurozona. E così attira i capitali dal resto dell’area, generando un ampliamento degli spread. Ad oggi, però, tale problema sta riguardando solo l’Italia, in considerazione sia delle tensioni politiche, sia dell’enorme mole del suo debito pubblico.

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