L’escalation delle tensioni in Ucraina non fa bene nemmeno alle pensioni. Almeno a quelle che verranno. In questo senso la riforma in discussione al Ministero del Lavoro fra governo e sindacati potrebbe prendere una brutta piega.

Le conseguenze del recente atto di forza russo nei confronti dell’Ucraina sta infatti mettendo sotto pressione il costo delle materie energetiche. I prezzi delle forniture di gas sono già alle stelle, ma non stanno tardando a salire anche quelli delle altre materie prime.

Tensioni in Ucraina, tremano le pensioni

Fin qui niente di nuovo. E direte: cosa c’entra questo con le pensioni? Ebbene, come abbiamo visto a inizio anno, le pensioni 2022 sono state rivalutate del 1,9% rispetto all’anno precedente in conseguenza dell’aumento dell’inflazione.

Per il 2022 l’inflazione è destinata a salire ulteriormente proprio a causa del boom dei costi dell’energia. In previsione, anche se è presto per dirlo, si potrebbe arrivare di botto a un incremento doppio rispetto al 2021. Un bene per i pensionati, ma un male per l’economia.

In Italia i pensionati sono oltre 16 milioni e lo Stato spende quasi il 17% del Pil per mantenerli. Lo scorso anno sono stati stanziati circa 4 miliardi di euro per rivalutare le pensioni nel 2022. Quanti altri ne serviranno ancora per adeguare gli assegni nel 2023?

Uscite anticipate nel mirino del governo

Logico presupporre che, a fronte di simili rincari, lo Stato dovrà impegnarsi maggiormente sugli assegni in pagamento e stanziare altri miliardi a bilancio. E, considerato che il premier Draghi – come ha ribadito – non è disposto a tollerare ulteriori scostamenti di bilancio per finanziare le pensioni, è lecito domandarsi come lo Stato potrà sostenere la maggiore spesa prevista.

In buona sostanza, chi pagherà il conto? La risposta non è difficile da immaginare: i lavoratori. La riforma pensioni, già orientata verso un taglio delle uscite anticipate, riceverà per effetto della crisi internazionale l’avallo per un taglio più robusto di quanto in discussione finora.

I sindacati vorrebbero che ai lavoratori fosse data la possibilità di lasciare il lavoro a partire dai 62 anni o con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età. Il governo punta, invece, all’uscita anticipata a 64 anni, ma col ricalcolo interamente contributivo della rendita, anziché misto.

In questo momento, l’ago della bilancia è orientato (per necessità) verso la seconda opzione. In altre parole, per sostenere gli aumenti previsti ai pensionati, si dovranno tagliare le pensioni anticipate.