C’è una Italia che lavora, produce e tira le fila di una ripresa che fatica a venire, e un’Italia che vive (o meglio “sopravvive”) di bonus, sussidi e salari da fame. La prima mantiene la seconda e così si sta a galla.

La colpa non è solo dello Stato e del periodo congiunturale. La colpa è anche delle imprese e dei datori di lavoro in generale che, stressati da un fisco bestiale, non possono concedere salari in linea con quelli di Francia o Germania.

Paghe da fame e sussidi a go go

Serve un salario minimo che tarda ad arrivare. Se ne parla da anni, in Europa esiste per 22 Stati su 27, ma l’Italia non lo ha ancora introdotto. Eppure lo chiede l’Europa, come si suol dire.

Così si preferisce elargire sussidi e bonus per compensare gli stipendi da fame che ormai accomunano centinaia di migliaia di lavoratori. I contratti dei lavoratori stagionali sono quasi tutti fuori regola. Si lavora 12-13 ore al giorno, sette giorni su sette, per 1.000 euro al mese (4 euro all’ora).

Di fronte a questa drammatica realtà, permessa dallo Stato, non c’è da stupirsi se in Italia manca ancora il salario minimo. Perché fa comodo che non ci sia. E il tasso di disoccupazione giovanile è al 33%, è gioco facile per i datori di lavoro offrire contratti al ribasso.

Perché serve il salario minimo

Il salario minimo è quindi uno degli strumenti che manca all’Italia. La sua mancanza rischia di aggravare gli squilibri in un Paese in cui c’è una componente di contrattazione non rappresentativa, che punta al dumping salariale. Come osserva il presidente dell’Inps Pasquale Tridico:

un importo tra 8 e 9 euro lordi l’ora, in linea con le indicazioni della commissione europea, includerebbe tra il 15% e il 26% dei lavoratori. Si sposterebbero 4-5 miliardi di euro sul salario aumentando anche il gettito fiscale per lo Stato.

Per le imprese si può pensare ad una contropartita: abbiamo alcune aliquote contributive minori, sulla Naspi o sull’assegno al nucleo familiare (destinato tra l’altro ad essere riassorbito in quello universale) che valgono 3-4 miliardi. Potrebbero essere fiscalizzate e la riduzione di costo compenserebbe le imprese.