La pensione dei lavoratori parasubordinati è da fame. A rivelarlo è l’Inps che ha diffuso i dati delle pensioni liquidate nella categoria nel 2019 con un assegno medio di 251 euro mensili (272 euro nel 2018). Si tratta di circa 27 mila lavoratori che hanno maturato i requisiti lo scorso anno e, conti alla mano, hanno ottenuto dall’Inps poco o nulla.

Vero che tali pensioni sono talvolta abbinate ad altri assegni pensionistici, ma se si analizza il contesto generale tenendo conto che in futuro le pensioni che saranno liquidate nella gestione separata Inps costituiranno la grande platea dei beneficiari, c’è da preoccuparsi seriamente.

I giovani che hanno iniziato a lavorare nel nuovo secolo sono stritolati fra lavori saltuari e malpagati, oltre che da periodi di interruzione e vuoti contributivi.

Pensioni da fame per i lavoratori parasubordinati

Oggi, infatti, le pensioni dei lavoratori parasubordinati possono vantare al massimo 24 anni di versamenti nel sistema contributivo, ma i giovani che hanno iniziato a lavorare con contratti atipici dal 1996 in poi, quando avranno maturato 40 anni di lavoro quanto prenderanno di pensione? Tenuto conto anche della più bassa rivalutazione del montante contributivo e delle aspettative di vita, è facile prevedere una pensione da 400-500 euro al mese. Anche perché la legge 335 del 1995 (riforma Dini) ha abolito il sistema di calcolo retributivo per coloro che hanno iniziato a versare contributi all’Inps dal 1 gennaio 1996. In altre parole, la pensione viene calcolata solo ed esclusivamente sulla base del monte retributivo di ciascun assicurato, con le dovute rivalutazioni in base all’inflazione. Ne consegue che la pensione sarà molto più bassa rispetto al sistema di calcolo retributivo.

Una pensione di garanzia per i giovani lavoratori

L’allarme è stato lanciato dai sindacati che siedono al tavolo di lavoro col governo per riformare il sistema pensionistico. Ma anche il ministro al Lavoro Nunzia Catalfo è consapevole che, nell’ambito della riforma che verrà, sarà necessario tenere in considerazione le pensioni dei giovani lavoratori di oggi e si pensa a una pensione di garanzia.

Chi ha iniziato a lavorare dopo il 1996 – fanno notare i sindacati – non percepirà mai un trattamento pensionistico pari a quello dei loro predecessori. Ma il problema più grosso riguarderà i 40 enni precari di oggi che andranno in pensione non prima di aver compiuto i 73 anni di età in assenza di almeno 20 anni di contributi, con un assegno misero non avendo manco diritto all’integrazione al trattamento minimo. A titolo di esempio, oggi come oggi, chi ha lavorato 20 anni con un lavoro full time e reddito di almeno 15 mila euro all’anno percepirebbe una pensione mensile di 680 euro lordi. Chi, viceversa, avesse lavorato come precario (colf o badante) per 8.000 euro all’anno potrà andare in pensione dopo 43 anni di lavoro con 270 euro al mese.

L’ipotesi fondo di garanzia gestito dall’Inps

Una vergogna – tuonano i sindacati – se si pensa a quanti soldi l’Inps ha regalato con sistema retributivo, senza le dovute coperture previdenziali. A maggior ragione se la soluzione al problema è quella di gettare intere generazioni di lavoratori precari nella miseria quando sarà il loro turno per andare in pensione. Serve una riforma. Come quella che il presidente dell’Istituto di previdenza sociale, Pasquale Tridico aveva proposto: la creazione di un fondo integrativo targato Inps. Una forma di previdenza complementare pubblica gestita dall’Inps, volontaria e alternativa alle forme complementari private che possa “garantire una prudente gestione dei fondi” e conseguentemente arrivare a offrire un assegno pensionistico dignitoso al lavoratore.