Dal prossimo anno le pensioni saranno rivalutate in base all’inflazione del 2022. Ci si attende una impennata degli assegni conseguente a una crescita dei prezzi che sfiorerà il 9% su base annua secondo le stime.

La rivalutazione delle pensioni, in gergo perequazione automatica, avverrà però sul lordo degli assegni e quindi rimarrà un gap aperto con il reale aumento dei prezzi. In più ci sarà da tenere conto delle maggiori imposte da versare.

Aumento delle pensioni e fiscal drag

Per questo si torna a parlare di “fiscal drag” o drenaggio fiscale.

Vale a dire che a fronte di un aumento degli assegni pensionistici, ci sarà anche un incremento del livello di tassazione. Basti solo pensare agli scaglioni Irpef o alle addizionali regionali e comunali che variano in base ai redditi.

A ciò bisogna aggiungere che i prezzi dei generi di largo consumo sono già aumentati nel corso del 2022. Per cui i consumatori hanno dovuto fronteggiare le maggiori spese attingendo ai propri risparmi o facendo debiti. Non a caso banche e finanziarie sono tornate a proporre credito al consumo di gran carriera.

In sintesi, il reddito “disponibile” dei pensionati, al netto, risulterà inferiore. Il fiscal drag consiste di fatto in un aumento “mascherato” delle imposte, all’interno di un contesto inflazionistico che allinea il livello dei prezzi a quello dei redditi, e quindi ai relativi scaglioni di imposta.

Rivalutazione assegni e pressione fiscale

Si potrebbe quindi tranquillamente dire che con una mano lo Stato dà e con l’altra prende. Anzi, prima prende e poi dà. Finora lo Stato ha incassato, grazie agli aumenti dei prezzi, maggiori contributi fiscali (Iva soprattutto). E il conto lo hanno pagato pensionati e lavoratori.

Dal 2023, le pensioni saranno rivalutate in base ai dati definitivi dell’inflazione pensando che lo Stato debba tirar fuori soldi in più.

Da un lato è vero, ma dall’altro si tratta di una semplice partita di giro in cui si restituisce ciò che è stato già preso prima. Con l’aggiunta che la pressione fiscale aumenterà.

Un meccanismo che era molto evidente negli anni 80 e di cui ci si è dimenticati col tempo, ma che è ben oliato e funzionante. Gli Stati, che hanno anche loro un bilancio da far quadrare, sanno benissimo che la rivalutazione delle pensioni avviene sempre in ritardo rispetto all’aumento dell’inflazione.

Nel frattempo cambiano anche gli assegni da rivalutare (tendenzialmente l’importo medio scende) e il numero delle vecchie pensioni (quelle più costose) a causa dei decessi. E così tutto quadra e il bilancio statale non va in sofferenza.