Se la riforma delle pensioni è destinata a giungere al traguardo almeno nel 2025, gli effetti diretti sui trattamenti potrebbero ripercuotersi ben prima che le discussioni raggiungano un risultato concreto.

Il rischio primario è quello di vedere scivolare, oltre al meccanismo primario previdenziale, anche gli adeguamenti degli assegni, inizialmente previsti per l’immediato futuro. O meglio, ci saranno ma in misura (molto) probabilmente ridotta rispetto a quanto preventivato. E questo proprio in un’ottica di risparmio in vista della futura riforma. Anche perché il taglio, che secondo le stime si attesterà nell’ordine di qualche decina di euro, riguarderà gli assegni più elevati, secondo quanto stabilito dai principi stessi della perequazione.

In sostanza, chi percepisce pensioni superiori a 2 mila euro, potrebbe ritrovarsi alle prese con una rivalutazione meno sostanziosa del previsto. Il sistema di rivalutazione, infatti, applicherà percentuali diverse rispetto a quanto era stato inizialmente disposto, operando un taglio comunque abbastanza marcato: dall’11% a circa il 6%.

A ogni modo, qualora i livelli si mantenessero fino alla fine del 2023, la rivalutazione si attesterà su una percentuale abbastanza ragguardevole. Per questo le rivalutazioni dovrebbero coinvolgere una quota ridotta degli assegni, allo stesso modo di quella che sarebbe stata prevista con una percentuale maggiore. E questo perché, al netto della rivisitazione delle percentuali, l’obiettivo resta quello di garantire ai pensionati un effettivo rialzo degli assegni come contrasto all’inflazione in salita. A fronte di un tasso oscillante tra il 6% e il 7%, infatti, l’indice di rivalutazione dovrebbe essere applicato attorno al 4-5%. Inoltre, vanno considerate le nuove percentuali in vigore, scaglionate su sei mesi anziché tre, con riduzione progressiva al crescere dell’importo.

Pensioni, la rivalutazione è più bassa: quali saranno le percentuali applicate ai trattamenti

A essere cambiate non sono solo le condizioni inflazionistiche, quindi, ma anche i presupposti di base. Basti pensare che, fino a ora, le percentuali di rivalutazioni applicate erano, come detto, tre:

  • 100% per i trattamenti fino a tre volte il minimo, con tetto a 2.062 euro lordi;
  • 90% per le pensioni tra tre e cinque volte il minimo, con tetto fissato a 2.577,90 euro lordi;
  • 75% per i trattamenti oltre cinque volte il minimo, oltre il tetto di 2.577, 90 euro lordi.

Con le nuovi percentuali, invece, il range è su sei scalini, che hanno di fatto assottigliato il margine per gli importi medio-alti.

Nello specifico, l’applicazione della rivalutazione scatta sulle seguenti percentuali:

  • 100%: pensioni fino a 4 volte il minimo, entro i 2.100 euro lordi mensili;
  • 85%: fino a 5 volte al minimo, fino 2.626 euro lordi al mese;
  • 53%: fino 6 volte il minimo, fino a 3.150 euro;
  • 47%: fino a 8 volte il minimo, pari a 4.200 euro;
  • 37%: fino a 10 volte il minimo, fino a 5.250 euro mensili;
  • 32%: trattamenti oltre le 10 volte il minimo.

Le percentuali in questione riducono di per sé la rivalutazione a partire dagli assegni più elevati, dai 2.500 euro in su. Come detto, il nuovo tasso di inflazione, rivisto al ribasso, contribuisce a ridurre gli effetti del ritocco sugli assegni. I quali dovranno essere comunque in grado di garantire ai pensionati il giusto potere d’acquisto rispetto all’aumento dei prezzi. Inoltre, con le nuove percentuali, la rivalutazione non è applicata pienamente nemmeno agli scaglioni più bassi, per i quali il ritocco resterà comunque al ribasso.

Riassumendo…

  • La riforma delle pensioni slitta di almeno un anno. I trattamenti, tuttavia, potrebbero subire delle modifiche già a partire dalla prossima rivalutazione;
  • l’applicazione delle percentuali di rivalutazione si basa su sei scaglioni anziché tre, con riduzioni degli aumenti più significative per gli importi medio-alti;
  • l’indice di inflazione più basso porterà assegni più bassi nell’ordine di qualche decina di euro.