In Italia, l’età pensionabile per la pensione di vecchiaia è fissata a 67 anni per tutti i lavoratori, sia uomini che donne. Pertanto, un ventenne che inizia a lavorare oggi dovrà lavorare per almeno 47 anni per poter andare in pensione. La tendenza è però quella di andare in pensione dopo 50 anni di lavoro perché in futuro il requisito anagrafico si alzerà essendo agganciato alla speranza di vita che è in tendenziale aumento.

Vero che bastano solo 20 anni di contributi per accedere alla pensione, ma nel sistema contributivo puro, in condizioni di lavoro e stipendio medio in Italia, ciò basterà giusto per ottenere l’equivalente di una pensione sociale.

Quindi, del tutto insufficiente per vivere. Occorrerà, pertanto, lavorare molto di più, almeno il doppio per raggiungere livelli suffcineti di rendita che avevano le generazioni precedenti con il sistema di calcolo retributivo.

In pensione dopo 50 anni di lavoro

D’altro canto, il sistema di calcolo retributivo delle pensioni, ancora in vigore, ha prodotto profonde diseguaglianze e ingiustizie sociali. Ha spostato il potere economico nelle mani della popolazione più anziana a scapito di quella più giovane e in età lavorativa. Le generazioni precedenti hanno ottenuto redditi da pensione che i giovani di oggi si possono solo sognare.

L’Ocse, nel suo studio annuale sui sistemi pensionistici, ha calcolato che in Italia il reddito degli ultra sessantacinquenni è pari al 103% della media nazionale. Più precisamente, è molto elevato il reddito di chi ha tra i 66 e i 75 anni (il 111,6% della media nazionale) mentre quello di chi ha più di 75 anni è più basso (al 94,2%). E questo sbilanciamento dei redditi verso la popolazione più anziana è un’anomalia tutta italiana nel contesto dei Paesi più avanzati. Mediamente nell’area Ocse il rapporto tra il reddito degli ultra sessantacinquenni e quello del resto della popolazione è dell’88%.

Ma dove sta esattamente l’ingiustizia? In teoria la normalità dovrebbe essere che chi lavora guadagni di più di chi è in pensione.

Ma in Italia non è successo questo. Fino alla fine del secolo scorso c’erano pensionati che percepivano più di rendita che di retribuzione per effetto appunto del sistema di calcolo retributivo della pensione che li premiava. Senza le adeguate coperture contributive.

Chi paga il conto delle pensioni retributive del passato

In un sistema pensionistico a ripartizione come il nostro, dove i contributi che si versano servono a pagare le rendite di chi è già in pensione, i conti non tornano. O meglio, possono solo tornare con enormi sacrifici che deve sopportare chi lavora. Sostanzialmente con l’allungamento dell’età pensionabile e quindi con l’obbligo di rimandare l’uscita sempre più in là nel tempo.

Considerato quanto pesano le pensioni sul debito pubblico, sarà necessario, da un lato lavorare di più e dall’altro rimandare la pensione negli anni. Penalizzando al contempo le uscite anticipate e le rivalutazioni degli assegni in base all’inflazione. La regola applicata dal governo, per ora, è questa, ammesso che sarà sufficiente.

Pertanto un lavoratore ventenne ha davanti a sé prospettive poco rosee e deve mettere in conto che dovrà lavorare per 50 anni prima di andare in pensione. Per il 2054 si prevede infatti che il requisito anagrafico per andare in pensione di vecchiaia salirà a 70 anni o giù di lì.

Riassumendo…

  • I ventenni di oggi andranno in pensione dopo 50 anni di lavoro.
  • Secondo l’Ocse in Italia la maggior parte del reddito è spostato verso le persone più anziane
  • Il conto delle pensioni retributive sarà pagato dai giovani lavoratori.