Nuove sentenze ci aiutano a fare chiarezza sulla portata della riforma in tema di mantenimento e divorzio. Ricordiamo che con la pronuncia della Cassazione dello scorso 10 maggio, è venuto meno l’obbligo di assicurare all’ex moglie il tenore di vita da sposata. Questo significa, tra le altre cose, che se l’ex coniuge ha un lavoro dignitoso e stabile che gli assicuri la possibilità di vivere in maniera dignitosa, perde il diritto all’assegno di divorzio.

I giudici hanno voluto interpretare tale novità normativa nell’ottica di negare il diritto al mantenimento a chi ha un posto fisso.

In quest’ottica, si deve intendere il dispositivo della sentenza della Corte di Cassazione del 29 agosto 2017, numero 20525, con la quale è stato negato il diritto di mantenimento ad una professoressa. Quest’ultima, essendo una dipendente statale assunta in modo stabile, ha dunque, sostengono i giudici, la capacità di mantenersi dignitosamente e non importa quanto sia ricco l’ex marito perché il principio del mantenimento del tenore di vita è caduto.

Tutti i dipendenti statali quindi perdono di fatto il diritto al mantenimento in caso di divorzio? Sul punto vale la pena citare la conclusione a cui è giunto il Tribunale di Milano che, il 22 maggio scorso, ha calcolato in 11.528, 41 euro annui il reddito minimo per essere considerati autosufficienti in Italia.

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Soprattutto nel settore privato però non è detto che chi guadagna mille euro al mese sia considerato automaticamente autosufficiente: la decisione è a discrezione dei giudici e non sono mancate contraddizioni dovendo valutare di caso in caso. Così, ad esempio, il Tribunale di Roma ha riconosciuto il beneficio ad una donna giovane e lavoratrice che però aveva sulle spalle una rata del mutuo pesante da sostenere da sola. Al contrario, invece, una donna disoccupata ma giovane e con le capacità di trovare lavoro, potrebbe vedersi negato il diritto all’assegno dell’ex marito anche se non guadagna mille euro al mese.


Ma la sentenza che più confonde le acque è quella del Tribunale di Udine che, dopo il 10 maggio, ha fatto comunque appello al principio del tenore di vita sostenendo che, essendo radicato da anni e anni di giurisprudenza, non potesse ritenersi superato.

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