Donald Trump ha fatto tappa anche nel Vietnam, il quarto stato visitato nel corso del suo tour asiatico lungo ben 12 giorni. Ieri, intervenendo al vertice APEC (“Asia-Pacific Economic Cooperation”), ha parlato di “miracolo”, notando come a Danang, sede dell’incontro tra i capi di stato e di governo aderenti all’accordo, soldati americani e vietnamiti si siano combattuti fino a non troppi anni fa, lasciando una lunga scia di sangue, mentre adesso i due popoli sono “amici”. Il presidente americano può essere orgoglioso nel rilevare come i sondaggi internazionali gli assegnino in questo stato asiatico una popolarità maggioritaria, uno dei soli sette casi al mondo.

Di lui qui piacciono il suo essere un businessman, le critiche all’ingombrante vicino cinese per i presunti abusi commerciali perpetrati ai danni delle altre economie (ieri, proprio dal Vietnam, Trump ha chiarito che non verranno più consentiti a nessuno dall’America) e il suo linguaggio diretto.

Eppure, l’esordio alla Casa Bianca è stato un colpo per Hanoi, essendo stata la prima misura della nuova amministrazione il ritiro degli USA dal TTP (“Trans-Pacific Partnership”), l’accordo di libero cambio tra una dozzina di economie del Pacifico, tra cui il Vietnam, che sperava così di stringere ulteriormente le relazioni commerciali con il potente alleato. La reazione di Hanoi non è stata scomposta, anche perché nessuno al governo vorrebbe indispettire Washington.

I numeri parlano chiaro: il mercato americano rappresenta uno sbocco essenziale per le imprese vietnamite, che nel 2016 vi hanno esportato qualcosa come quasi 43 miliardi, a fronte di 10 miliardi e rotti di importazioni dagli USA, esitando un saldo netto di 32 miliardi, il 15,8% del pil. In pratica, un sesto della ricchezza dei vietnamiti scaturisce dalle esportazioni nette verso l’America. Sulla base dei dati dei primi 9 mesi, quest’anno il saldo commerciale sarebbe persino in miglioramento verso i 38 miliardi.

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Vietnam verso l’uscita dalle piccole economie?

Stando a Forbes, il Vietnam si troverebbe adesso nelle stesse condizioni economiche della Cina del 2006. In questi ultimi 11 anni, la sua economia è cresciuta mediamente del 5%, nettamente meno del 6,8% di quella cinese, anche se il ritmo appare sostenuto ed è stato sufficiente a innalzare il pil pro-capite da 800 a 7.000 quasi 2.200 dollari al 2016, nonché quello a parità di potere di acquisto da 4.000 a 7.000 dollari. Il governo comunista di Hanoi punta per l’anno prossimo a una crescita nel range 6,5-6,7%, dopo il +6,7% atteso per il 2017, in accelerazione dal 6,2% dello scorso anno. Per centrare tali obiettivi, sta varando una serie di riforme, note come “Doi Moi”, che letteralmente significa “rinnovamento”. Questione di qualche anno e l’economia emergente potrà essere ufficialmente considerata una tra quelle con reddito medio.

E così, a meno di mezzo secolo dalla fine della guerra con gli USA, il sentimento prevalente sarebbe quello di ambire a diventare un partner solido degli americani. Già il Vietnam è per loro l’11-esimo esportatore per dimensioni. E Trump ha ricordato come il suo paese ha abbassato o eliminato i dazi, ma non tutti avrebbero fatto così, spiega, ricordando ai presenti in sala (qualcuno tra il pubblico ha pure mormorato), che resta fermo il suo principio per cui prima di tutto viene per lui l’America, attendendosi che facciano così tutti gli altri stati con i rispettivi interessi nazionali. E Hanoi gode del nuovo corso tra Washington e Pechino, avvertendo i benefici dall’essere alleati dei cinesi, ma allo stesso tempo corteggiati dagli americani proprio per la loro posizione geopolitica strategica. Alle armi di un tempo si sono sostituiti i rapporti commerciali bilaterali. (Leggi anche: Mercati emergenti: Vietnam e Brasile tra i migliori)