Il Consiglio dei ministri di giovedì 25 gennaio ha dato il via libera tra le altre cose alla vendita di una ulteriore quota del Tesoro in Poste Italiane. Due saranno i punti fermi: garantire l’azionariato diffuso, ossia i piccoli investitori, e mantenere il controllo pubblico della società. Il capitolo privatizzazioni si arricchisce di dettagli ed entra nel vivo anche del dibattito parlamentare. La quotazione in borsa di Poste risale al 2015, quando premier era Matteo Renzi. Il titolo guadagna da allora quasi il 60% e la capitalizzazione è salita a 13,34 miliardi di euro.

Cessione Poste scendendo al 50%?

Sebbene privatizzata, Poste Italiane rimane sotto il controllo dello stato. Direttamente, tramite il 29,6% detenuto dal Ministero di economia e finanza, e indirettamente con il 35% di Cassa depositi e prestiti. Questi è un ente controllato quasi totalmente dallo stesso Tesoro. Dunque, la quota pubblica ammonta ancora oggi complessivamente al 64,6%. Vendere un nuovo pacchetto senza perdere il controllo significa possibilmente limitarsi a mettere sul mercato fino al 14,5% del capitale. Lo stato rimarrebbe con il 50,1%, avendo la certezza di restare il socio di maggioranza. In realtà, potrebbe anche decidere di scendere sotto il 50%, come ha fatto in società come Enel ed Eni. Non per questo diventerebbe un socio di minoranza.

Gli altri asset nel mirino

Ad ogni modo, anche solo limitandosi a cedere il 14-15%, incasserebbe fino a 1,9 miliardi di euro ai prezzi attuali di borsa. E tra meno di un mese scade il “lock-up” di 90 giorni per Monte Paschi di Siena. A novembre, il Tesoro vendette il 25% per 920 milioni di euro e s’impegnò a non offrire sul mercato nuove quote per tre mesi. Entro l’anno, secondo gli accordi presi con la Commissione europea, la rimanente quota del 39,4% dovrà essere azzerata. Ai prezzi di borsa attuali, altri 1,6 miliardi.

E da qualche settimana è trapelata la notizia che il governo di Giorgia Meloni vorrebbe vendere anche il 4% di Eni, ma dopo che in primavera la compagnia avrà completato il piano di riacquisto delle azioni proprie o “buyback”.

Tale quota farebbe incassare allo stato altri 2 miliardi. Infine, ci sarebbe nel mirino anche Ferrovie dello stato. Qui, la situazione è più complessa, perché si tratta di una società che ancora non è andata in borsa e che richiederebbe la separazione dalle controllate Trenitalia e Rete ferroviaria italiana.

Nei mesi scorsi, quando si speculò sulla cessione del 40%, emerse la stima di circa 5 miliardi di euro di incassi. La società ha chiuso il bilancio del 2022 con ricavi per 13,7 miliardi e un utile netto di 200 milioni. Infine, possibile cessione di una quota di Rai Way, la società che gestisce le torri di trasmissione per la TV di stato e che in borsa vale 1,33 miliardi, al 65% dello stato. Scendendo al 50%, entrerebbero 200 milioni. Sommando queste entrate attese, nel caso in cui il governo procedesse alla vendita entro pochi mesi, riuscirebbe a introitare sui 10,5-11 miliardi. Sarebbero oltre la metà dei 20 miliardi messi nero su bianco con la Nota di Aggiornamento al DEF di settembre per il triennio 2024-2026.

Privatizzazioni oggetto di polemica politica

La polemica politica scaturisce da una constatazione: ha senso privarsi di asset statali per racimolare briciole rispetto alla montagna del debito pubblico italiano, che si attestava a novembre a 2.855 miliardi? Il punto non è questo. Le privatizzazioni servono a più scopi. In primis, a rendere più efficiente la gestione delle società, facendo entrare capitali e azionisti freschi. Secondariamente, si tratterebbe di un segnale positivo di apertura al mercato, in una fase in cui i governi tendono perlopiù ad espandere i propri compiti anche nell’ambito industriale.

E una decina di miliardi sin da quest’anno non risolverebbe senz’altro il problema del debito, ma rimpinguerebbe in ogni caso le casse dello stato, consentendo all’esecutivo di mantenere gli impegni sul fronte fiscale con Europa e mercati.

Con la logica che le privatizzazioni non facciano incassare abbastanza, non s’inizierà mai. Ed è realmente necessario che lo stato possegga asset non strategici o quote di controllo così preponderanti? Già il solo esercizio della “golden power” gli assegnerebbe poteri pregnanti nei settori più delicati. E per tutelare i consumatori serve più che il controllo statale, una vera ondata di liberalizzazioni con l’ingresso di nuovi concorrenti che facciano abbassare i prezzi e stimolino l’aumento qualitativo di servizi e prodotti offerti.

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