La settimana che sta per concludersi non sarà archiviata per la scissione del Movimento 5 Stelle con l’addio di Luigi Di Maio. No, quello è avanspettacolo di terza categoria. Sarà ricordata per la ben più seria contrapposizione tra Flavio Briatore e i pizzaioli napoletani. Oggetto del contendere: chi fa meglio la pizza! All’infuori della sfera religiosa, in Italia l’aggettivo “sacro” può essere accostato solamente a due sostantivi: il cibo e il calcio. Tutto il resto non conta mai davvero a sufficienza.

Ora, l’imprenditore cuneese ha avuto il coraggio di buttarsi in un business considerato prerogativa esclusiva di una specifica categoria di una specifica area d’Italia. E ha altresì infranto il tabù della pizza napoletana, definendola meno buona di quella sfornata nei suoi ristoranti. “La pizza buona non la fanno solo a Napoli”, ha spiegato.

Briatore ha infranto qualche tabù

Queste parole, condivisibili o meno, appaiono sacrileghe in un paese come il nostro fondato sul corporativismo, cioè su caste chiuse e spesso dinastiche. Certi mestieri non ammettono concorrenza all’infuori di una cerchia ristretta e magari si tramandano di padre in figlio. Infine, Briatore ha avuto l’ardire di mettere in dubbio la bravura dei napoletani. E al Sud, bisogna ammetterlo, esiste un certo sotto-pensiero diffuso per cui solo i meridionali sarebbero in grado di cucinare bene, accoglienti con gli altri, ecc.

Briatore ha spazzato via questa retorica con un paio di frasi. Non è detto che abbia ragione, perché sarà solo il mercato a stabilirlo. Se i suoi ristoranti reggeranno il business e produrranno utili, bisognerà che i pizzaioli napoletani o di ogni altra parte d’Italia se ne facciano una ragione. Ma l’imprenditore un merito lo avuto indubbiamente, comunque andrà a finire questo confronto: ha acceso i fari sui costi dei ristoranti italiani, i quali non sempre giustificherebbero certi prezzi “popolari”, specie nel Meridione.

Saranno frutto di evasione fiscale, lavoro nero, retribuzioni da fame o di materie prime non eccelse? Chi lo sa.

Questione di nicchie di mercato

Di certo, qualcosa a volte non quadra. Non che una pizza Margherita debba costare necessariamente i 14 euro richiesti al Crazy Pizza di Briatore. Quel prezzo fa riferimento a un segmento di clientela che non è di massa. Ed anche questo è bene che i pizzaioli napoletani capiscano. Esistono nicchie di mercato differenti e che non vanno giudicate. Esse dipendono da caratteristiche socio-culturali ed economiche. Non tutti desiderano mangiare la pizza da zio Gino sotto casa, dove magari si mangia benissimo e per poco. C’è chi preferisce sedere in un locale più esclusivo, assaporare piatti gourmet, anche solo per il gusto di fare il figo sui social.

“Meno male che esistono gli stupidi”, “solo uno cafone arricchito può mangiare da Briatore”. Frasi come queste sono il male della ristorazione italiana. I clienti si rispettano, anche quando si rivolgono alla concorrenza. Non si tratta di essere stupidi o intelligenti – chi giudica e secondo quali criteri? – bensì di sapere apparecchiare un’offerta che soddisfi ogni fetta della domanda. E’ così che funziona il libero mercato. Briatore non punta la pistola ai passanti per farli entrare nei suoi locali. Chi lo fa, sa di spendere qualcosina in più, forse neppure per la qualità della pizza in sé, quanto per l’esperienza che gli viene fatta vivere. Del resto, gran parte del Made in Italy si fonda sul lusso. E il lusso per definizione è di nicchia, ma non per questo lo definiamo un mercato per stupidi. Ognuno faccia il proprio mestiere con gli ingredienti e la passione che vuole, e lasci che gli altri facciano il loro. C’è spazio per tutti. Abbasso il corporativismo e viva il libero mercato!

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