Secondo l’agenzia di rating S&P, il Venezuela sarebbe in default, avendo mancato una scadenza da 200 milioni di dollari su bond sovrani. Il presidente Nicolas Maduro ha riunito lunedì scorso i creditori privati per cercare di raggiungere un’intesa per la ristrutturazione del debito, ma parlare di fallimento delle trattative sarebbe sfoggiare ottimismo, dato che non si è nemmeno aperto un vero tavolo di confronto e gli obbligazionisti sono usciti dall’incontro, durato appena 25 inutili minuti, con una borsa colorata piena di cioccolatini locali.

Una faccenda tragicomica, se non fosse che 30 milioni di abitanti patiscono letteralmente la fame per l’incompetenza mostrata dal governo “chavista” nella gestione dell’economia.

Il peggio non sarebbe nemmeno alle spalle. Se il default o la rinegoziazione del debito in sé consentirebbe al Venezuela di saltare le prossime scadenze, liberando risorse da destinare alle importazioni e contrastando così la forte carenza di beni, c’è da fare i conti con la crisi nera del petrolio, unica risorsa esportata e che frutta a Caracas il 96% dei dollari in ingresso. Secondo i dati dell’OPEC, la produzione giornaliera media di ottobre del Venezuela, stato membro del cartello, sarebbe scesa sotto i 2 milioni di barili, il livello più basso dal 1989, attestandosi a 1,955 milioni. Una fonte secondaria cita numeri persino peggiori: 1,863 milioni. A settembre, la produzione era stata di 2,085 milioni di barili al giorno. Nel 2016, la media fu di 2,373 milioni, l’anno prima di 2,654 e l’anno prossimo, stima l’OPEC, potrebbe scendere ulteriormente del 10%. (Leggi anche: Venezuela, collasso economico definitivo con crollo produzione petrolio)

La maledizione del chavismo

Come mai, se il Venezuela dipende dal petrolio come nessun altra economia produttrice, ne estrae sempre meno? La risposta va ricercata in quasi un ventennio di “chavismo”. Quando Hugo Chavez arrivò al potere nel 1999, la produzione si attestava a 3,1 milioni di barili ed era realizzata da 40.000 dipendenti.

Da allora, il numero dei dipendenti è quasi quadruplicato a 150.000 unità, mentre la produzione è scesa di un terzo. Di conseguenza, la produttività della compagnia petrolifera statale PDVSA è letteralmente precipitata e oggi le servono almeno 40 dollari al barile solo per coprire i costi. Teniamo presente che il greggio venezuelano, essendo ad alto contenuto di zolfo, va diluito con greggio “leggero” importato dagli USA e viene venduto sui mercati internazionali a sconto rispetto al Brent.

Cos’è successo negli ultimi anni? PDVSA è stata utilizzata come un bancomat dal governo sia di Chavez che da quello del successore Maduro dal 2013. E così, se la Norvegia è stata in grado in poco più di 20 anni di mettere da parte qualcosa come 1.000 miliardi di dollari, affidandoli al proprio fondo sovrano alimentato con le entrate petrolifere, Caracas ha sprecato ogni risorsa e non ha approfittato dei tempi d’oro del petrolio, quando le quotazioni erano salite fin sopra i 100 dollari al barile. Al contrario, la compagnia possiede oggi debiti per circa un terzo di quelli complessivi sovrani del Venezuela. E se nel 2014 aveva incassato 122 miliardi di dollari dalla vendita di petrolio, nel 2016 si è dovuta accontentare di 48 miliardi. Contrariamente ad Oslo, il governo di Caracas non ha potuto attutire l’ammanco ricorrendo alle risorse accumulate in passato, essendo queste inesistenti. Anzi, si è trovato scoperto, con un deficit fiscale al 20% del pil, non tamponato nemmeno dalle fluttuazioni del cambio, il quale è stato mantenuto a rapporti fissi con il dollaro e a livelli iper-sopravvalutati.

Il calo della produzione è frutto di molti anni di mancati investimenti e di perdita di capacità umane. Arrivando al potere, i chavisti hanno sfruttato ogni petrodollaro per finanziare la spesa sociale, senza tenere conto che il settore energetico sia ad alta intensità di capitale. Inoltre, hanno riempito la compagnia di dipendenti e managers amici e compiacenti sul piano politico, in barba alle competenze.

Da qui, si spiega il crollo in 4 anni da 83 a 39 dei pozzi attivi nel paese. Da qui, si spiega come sia stato possibile per la compagnia, secondo indagini in corso, stipulare una decina di contratti per complessivi 35 miliardi a prezzi stimati nel 230% superiori a quelli che sarebbero stati giustificabili. (Leggi anche: Venezuela, come un’economia ricca di petrolio ha collassato)

Rischio azzeramento delle estrazioni

Il 40% delle esportazioni di petrolio venezuelano si ha sul solo mercato USA. Dati recenti indicano un crollo del 56% di tali importazioni americane, cosa che desta allarme, anche perché PDVSA non può permettersi di perdere tempo a cercare nuovi clienti in un mercato globale già in eccesso di produzione da tre anni e mezzo. Come se non bastasse, infatti, la sua già calante produzione è impegnata per il 36% per ripagare debiti a Russia e Cina e per spedire petrolio semi-gratis a Cuba e una dozzina di altri stati appartenenti all’accordo del 2005, noto come Petrocaribe. In sostanza, il Venezuela produce sempre meno petrolio, deve utilizzarne una percentuale crescente per pagare debiti e un’altra per mantenere buoni rapporti politici con governi amici. Non è finita, perché il greggio a uso interno è venduto a prezzi ridicoli: la benzina costa qui appena 1 centesimo al litro, ragione per cui i distributori non ritengono conveniente venderla agli automobilisti, preferendo spacciarla al mercato nero, meglio se nella vicina Colombia, dove potranno incassare oltre 100 volte tanto.

Una gestione così allucinante della compagnia fondata nel 1976 non può essere raddrizzata adesso, essendo necessari miliardi di investimenti per risollevare la produzione. Servirebbe anche dimagrire il numero dei dipendenti, eliminare i sussidi energetici interni, riguardanti anche le bollette della luce, sopprimere gli accordi di Petrocaribe e se non privatizzare, almeno sganciare PDVSA dal governo, rendendola una società autonoma e gestita secondo criteri aziendali. Nulla di tutto ciò Maduro può permettersi, specie adesso che Caracas è in default e deve attingere a ogni dollaro per evitare il peggio del peggio.

E così, il rischio che da qui ad alcuni mesi, dall’economia andina non sarà più estratto un solo barile per mancanza di liquidità si fa serio. Per il mercato globale sarebbe uno shock, perché assisterebbe a un crollo dell’offerta per circa l’1,5% di quella complessiva, qualcosa in più dei tagli alla produzione realizzati dall’OPEC. (Leggi anche: Le convulsioni del Venezuela peseranno sul petrolio: prezzi a 70-80 dollari?)