Durante un’intervista rilasciata al quotidiano britannico Financial Times, il vice-presidente dell’ESMA, l’authority dell’Unione Europea per i mercati, tale Erik Thedéen, ha proposto di vietare il “mining” di criptovalute come Bitcoin ed Ethereum nell’area. E ha spiegato che il fondamento di questo divieto risiederebbe nel rischio di non poter centrare l’obiettivo di ridurre del 55% le emissioni inquinanti entro la fine del decennio.

In altre parole, le “estrazioni” di Bitcoin sarebbero vietate per difendere l’ambiente.

Non è la prima volta che il tema ricorre e gli esperti hanno più volte messo in guardia dall’enorme consumo di energia che il processo impiegato per generare nuove crypto sul mercato provoca. Esso è stimato in 134 Terawattora, praticamente quanto l’Argentina, l’Olanda o il Pakistan in un anno. E Thedéen lamenta che i consumi si starebbero spostando sulle energie rinnovabili, minacciandone un impiego a favore dell’economia reale.

L’Unione Europea è solo marginalmente coinvolta dal problema. Tra Francia, Germania, Svizzera e Italia avviene solamente il 5% del “mining” mondiale contro il 35,4% degli USA e il 18% del Kazakistan. Fino a un anno fa, la Cina incideva da sola per il 75%, ma dopodiché ha deciso di vietare sia il “mining” che le transazioni in Bitcoin, di fatto azzerandone il business in patria e spostando “miners” verso il Kazakistan. Adesso, con le recenti proteste di piazza e la censura temporanea di internet da parte del governo, le attività si sono rivelate meno sicure del previsto nello stato dell’Asia centrale, sebbene resti preferito per il suo basso costo dell’energia e il clima freddo secco. Quest’ultimo riduce le probabilità che i dispositivi elettronici si surriscaldino eccessivamente durante il “mining”.

Bitcoin: da proof of work a proof of stake?

Tornando al divieto ventilato da parte della UE, esso non riguarderebbe il “mining” tout court, bensì il protocollo “proof of work” utilizzato per generare nuovi Bitcoin ed Ethereum.

In pratica, per immettere nel sistema un nuovo token digitale è necessario compiere calcoli matematici molto complessi. Il primo che riesce a risolverli, crea un nuovo blocco. Tutti gli altri utenti a quel punto hanno perso e dovranno semmai dedicarsi alla creazione del blocco successivo. Questo processo spreca molta energia, perché nei fatti tantissimi utenti concorrono con calcoli matematici alla creazione di un blocco, ma solamente i calcoli di uno di loro saranno fruttuosi. I restanti avranno consumato energia elettrica per niente.

L’alternativa a cui la UE vuole che il mondo delle crypto tenda è l’adozione del protocollo “proof of stakes”. In questo caso, all’utente che vuole concorrere alla creazione del nuovo blocco è richiesta la prova del possesso di una certa quantità di crypto. Chi vince, sarà anche l’unico ad effettuare i calcoli. In questo modo, il consumo di energia si abbasserebbe. Il problema sta nella decentralizzazione della struttura su cui regge Bitcoin. L’adozione di un nuovo protocollo dovrebbe avvenire per spontanea adesione della community. Ma con la quasi totalità del “mining” all’infuori dei confini europei, ci sarebbero numerose nuove mete a costi più bassi in cui migrare per proseguire il business.

D’altra parte, se è vero che i consumi di energia siano così elevati, è pur innegabile che il mercato delle crypto abbia raggiunto valori inimmaginabili fino a qualche tempo fa, superando nel novembre scorso i 2.000 miliardi di dollari di capitalizzazione. Il punto è che per i governi e le banche centrali si tratterebbe di un mercato senza alcun valore, insomma di “fake coins”. Ed è comprensibile nutrire un simile sentimento verso il 99,9% delle 15.000 criptovalute esistenti, non a caso definite anche come “shitcoins”. Negare, invece, le potenzialità di token digitali come Bitcoin ed Ethereum significa chiudere gli occhi dinnanzi a una novità dirompente.

I divieti europei rischiano di trasformarsi in un boomerang. Il Vecchio Continente può così perdere anche la sfida sui nuovi asset finanziari dopo la “new economy”.

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