Sono stati in centomila a sfidare le temperature polari per recarsi ai seggi e scegliere il candidato dell’Iowa del Partito Repubblicano per le elezioni presidenziali di novembre. Il caucus invia 37 delegati alla Convention del GOP. Un appuntamento importante, perché segnava ieri l’avvio della marcia elettorale che porterà a scegliere il prossimo inquilino alla Casa Bianca. E a stravincere è stato Donald Trump, che presidente lo è stato già e che cerca il bis, sfumato nel 2020 con la vittoria del democratico Joe Biden.

Ha ottenuto il 51%, distanziando tutti gli altri avversari. Soprattutto, non c’è stata l’affermazione di Nikki Haley, che qualcuno a sinistra sperava potesse porre un freno alle ambizioni del tycoon. Non solo ha perso la sfida diretta come da previsione, ma è arrivata terza e alle spalle del governatore della Florida, Ron DeSantis. Questi ha ottenuto il 21% contro il 19% dell’ex ambasciatrice USA alle Nazioni Unite.

Verso rematch Trump-Biden

Proprio in questi giorni a Davos, Svizzera, si tiene il World Economic Forum dal titolo eloquente: “Ripristinare la Fiducia”. Intelligenza Artificiale in cima ai pensieri delle centinaia di delegati, tra cui solo il presidente francese Emmanuel Macron sarà presente tra i leader del G7. L’atmosfera che si respira nelle montagne innevate elvetiche è quella di una quasi rassegnazione al ritorno di Trump alla Casa Bianca.

Le probabilità di un rematch Trump-Biden sono altissime. A febbraio, la Corte Suprema sarà chiamata a decidere sulla scelta dello stato del Colorado, a guida democratica, di impedire al tycoon di candidarsi, in quanto ha capeggiato l’insurrezione contro il Congresso del 6 gennaio 2021 con l’obiettivo di ottenere la cancellazione della vittoria di Biden. In pochissimi credono che sarà possibile seguire la via legale per sbarrargli la strada verso Pennsylvania Avenue.

Economia USA bene, ma a debito

Cosa significherebbe per l’economia degli Stati Uniti un secondo mandato di Trump? Negli ultimi otto anni, fatta eccezione chiaramente per il periodo pandemico, il PIL è cresciuto sia con il repubblicano che con il democratico alla Casa Bianca.

Il mercato del lavoro resta in piena occupazione, l’inflazione sta scendendo dopo la fiammata del 2022-’23 e il tasso di disoccupazione tra le minoranze è ai minimi termini rispetto alla maggioranza bianca. Lo stato di salute della superpotenza sembra ottimale e non tutti riescono a capire le ragioni del profondo malcontento verso l’amministrazione Biden, ai minimi termini di popolarità.

C’è da dire, però, che il debito pubblico negli Stati Uniti non fa che crescere da decenni ed è arrivato alla soglia del 130% del PIL nel 2022, anche se l’anno scorso dovrebbe essere sceso intorno al 125%. Il deficit federale solo l’anno scorso è stato di 1.700 miliardi di dollari, mentre il debito complessivo ha sfondato i 34.000 miliardi. In pratica, l’economia va bene e la recessione non s’intravede, ma solo perché c’è il governo che spende e spande. Fino a quando?

Dollaro non garanzia eterna

Neppure gli Stati Uniti potranno sfuggire all’infinito alle leggi dell’economia. Se hanno potuto farlo finora, è grazie al super dollaro. In qualità di valuta di riserva mondiale, possono continuare ad attirare capitali stranieri anche facendo debiti e stampando moneta. Ma quello che Valery Giscard d’Estaing definì “un privilège exorbitant” mostra già i suoi limiti. C’è un pezzo di mondo che si ribella allo strapotere del dollaro e che sta organizzandosi per creare un circuito finanziario alternativo attorno ai cosiddetti Brics capeggiati dalla Cina.

Nel lungo periodo, continuare a fare debiti e tenere i tassi bassi si rivelerebbe una strategia perdente. Il problema è che le agende di entrambi gli schieramenti non prevedono alcuna forma di austerità fiscale vera e propria. I repubblicani vogliono il taglio delle tasse, i democratici l’aumento della spesa, nessuno dei due mostra le coperture finanziarie.

I primi si mostrano fiscalmente prudenti quando sono all’opposizione, dimenticandosene una volta alla Casa Bianca. I secondi invocano l’aumento delle tasse quando non esprimono la presidenza. Fatto sta che nessuno ha negli ultimi anni risolto il gigantesco problema del deficit.

Differenze in politica estera

Che vinca Trump o Biden, tuttavia, non sarà indifferente. La postura in politica estera tende ad essere diversa. Biden non ha riavvicinato gli Stati Uniti alla Cina. In cambio, ha sostenuto l’Ucraina contro la Russia. Con Trump il sostegno a Kiev verrebbe verosimilmente meno. Resta da vedere se ciò accelererebbe il raggiungimento di un accordo di pace e a quali condizioni. Sul Medio Oriente, un recente sondaggio ha fatto emergere che persino la maggioranza degli elettori democratici considererebbe Trump migliore di Biden.

Il mondo è in subbuglio e gli Stati Uniti di Biden sono apparsi confusionari, a tratti incendiari, ma senza una strategia chiara. Un possibile cambio di passo con la presidenza Trump si avrebbe in relazione all’Arabia Saudita. Il principe Mohammed bin Salman detesta profondamente il democratico, mentre ebbe buoni rapporti con il repubblicano. Sarebbe più semplice per il secondo alzare il telefono e chiedere a Riad di calmierare i prezzi del petrolio. Ad oggi, raramente il principe risponde alle chiamate da Washington con Biden alla Casa Bianca.

Con Trump meno tasse e onshoring

Con l’Europa i rapporti non sarebbero semplici, anche se c’è da dire che non lo sono neanche in questi anni. La guerra russo-ucraina è stata subita dal Vecchio Continente, così come l’IRA, il programma di sussidi per la transizione energetica. Paradossale che sembri, alla Germania era andata molto meglio con Trump che non con Biden. Con il secondo ha perso il gas russo, quote di mercato all’estero e registra i maggiori rincari dei prezzi dagli anni Settanta. Una minaccia alla propria industria, che si traduce nel calo della produzione e del PIL.

Tornando agli Stati Uniti, una seconda presidenza Trump batterebbe il tasto del taglio alle tasse e ai sussidi. La superpotenza diventerebbe ancora più allettante per i capitali stranieri e accelererebbe i piani di “onshoring” dalla Cina, accorciando le catene di produzione. Anche questa strategia, se vogliamo, metterebbe in un angolo l’Europa, dove la pressione fiscale resta altissima e nessun governo segnala di volerla abbassare in misura consistente. In un certo senso, Trump di nuovo alla Casa Bianca costringerebbe Bruxelles a ripensare sé stessa. Cosa che, peraltro, sta già avvenendo per la palese divergenza di interessi con Washington su alcuni temi, pur con l'”amico” Joe presidente.

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