E’ rimasta solo l’ex governatore della Carolina del Sud a contrastare l’ex presidente Donald Trump alle elezioni primarie del Partito Repubblicano. E dopo il ritiro dalla corsa di Ron DeSantis, governatore della Florida, con conseguente appoggio dichiarato per il tycoon, Nikkei Haley ha probabilmente a disposizione solo il voto di domani nel New Hampshire per dimostrare di poter reggere il confronto. I sondaggi danno il suo sfidante in vantaggio, probabilmente intorno a una quindicina di punti percentuali con la corsa a due.

Sempre più realistica l’ipotesi che per la terza volta consecutiva la destra sia rappresentata dallo stesso uomo per cercare di conquistare la Casa Bianca. Se così, torneremo presto a sentire parlare di Trumpflation?

Questo vocabolo fu tra i neologismi più diffusi nel 2016, all’epoca in cui Trump vinse contro tutti i pronostici le elezioni presidenziali contro Hillary Clinton? Esso nacque dalla fusione tra il cognome del tycoon e il termine “inflation”. Stette ad indicare un possibile surriscaldamento dei prezzi al consumo come conseguenza della politica economica promessa in campagna elettorale, caratterizzata da tagli alle tasse, aumento degli investimenti pubblici a favore delle infrastrutture e dazi ai danni delle merci cinesi.

Trumpflation non ancora scontata dal mercato

Va detto che nei quattro anni di mandato, la Trumpflation si materializzò, ma in misura assai modesta. La crescita dei prezzi accelerò rispetto ai livelli insolitamente bassi degli anni passati, ma restando entro i livelli di guardia. In media, salì all’1,9%, appena sotto il target del 2% fissato dalla Federal Reserve. Nel quadriennio precedente, era stata dell’1,3% scarso.

Per cercare di capire se il mercato sconti la Trumpflation, guardiamo al tasso di breakeven a 5 anni, ossia alla differenza tra rendimento del T-bond con cedola fissa e dei titoli indicizzati all’inflazione (TIPS) della durata entrambi quinquennale. Attualmente, esso risulta del 2,30%, in crescita dal 2,05% a cui era sceso agli inizi di dicembre e sopra il target del 2%.

Ma sembra molto presto per dire che gli investitori si stiano davvero preparando a una seconda presidenza Trump. Anche perché usciamo da un periodo di alta inflazione. A novembre, negli Stati Uniti è risalita al 3,4%.

Deficit e Cina, differenze con Biden minime

Se l’ex presidente ottenesse un secondo mandato, quali sarebbero le probabilità di una possibile Trumpflation? A differenza del 2016, la campagna elettorale ad oggi è stata concentrata sugli scontri personali, specie tra vecchio e attuale inquilino alla Casa Bianca. I programmi in questa fase contano poco. Sappiamo, tuttavia, che Trump continuerebbe a puntare sui tagli alle tasse da un lato e sull’aumento degli investimenti per le infrastrutture dall’altro. Ed è altamente probabile che entrambe le misure vengano varate in deficit, almeno in gran parte.

In teoria, questa politica economica avrebbe implicazioni espansive sui prezzi al consumo. Tuttavia, c’è da dire che già oggi la linea di Washington è questa. E in piena crescita del PIL. Il deficit fiscale nel 2023 è stato di quasi 1.700 miliardi di dollari. Ciò spiegherebbe perché sui mercati non si respira grande tensione. La possibile differenza stavolta avverrebbe in politica estera. Una Casa Bianca meno aperta alla globalizzazione con ancora più dazi sulle importazioni di merci cinesi e incentivi a favore del reshoring farebbe salire i costi di produzione e i prezzi al consumo. E si verificherebbe un po’ di Trumpflation.

Globalizzazione e Medio Oriente casi aperti

Ma anche in questo caso dobbiamo partire dalla situazione attuale per capire che gli Stati Uniti hanno già avviato una sorta di deglobalizzazione guidata con l’Inflation Reduction Act (IRA) del 2022. L’amministrazione Biden non è stata meno dura verso la Cina di chi l’ha preceduta. Anzi, la tensione con Pechino è arrivata forse ai massimi livelli proprio in questo ultimo biennio.

Ed ecco, allora, che dovremmo spostare l’attenzione più che altro sul Medio Oriente. Qui, una presidenza Trump gestirebbe le crisi internazionali apertesi in modo assai differente.

Il tycoon ha rapporti molto amichevoli con l’Arabia Saudita e molto più burrascosi con l’Iran. La sua leva su Israele risulterebbe forse maggiore per addivenire a un cessate il fuoco con Hamas. D’altra parte, i sauditi sarebbero meno scontrosi con Washington sul petrolio. Eviterebbero di tenere troppo alte le quotazioni, accettando di aumentare la produzione dell’OPEC. E in casa, Trump sosterrebbe nuovamente le estrazioni allentando le normative ambientali. Un aumento dell’offerta globale ridurrebbe i prezzi, innescando un calo dell’inflazione.

Freno alla transizione energetica

Per non parlare della transizione energetica. Trump non è impegnato a ridurre più di tanto le emissioni di CO2, certamente non al costo di distruggere pezzi di produzione nazionale. Una sua vittoria avrebbe effetti ribassisti sulle materie prime legate alle energie rinnovabili e alla decarbonizzazione, tra cui litio e rame. E anche in questo caso l’impatto nel breve termine sarebbe di un calo tendenziale dei costi di produzione, ergo dell’inflazione.

Trumpflation rischio contenuto

Infine, la guerra tra Russia e Ucraina. Trump ha spavaldamente dichiarato che se vincerà le elezioni di novembre, farà finire lo scontro bellico “in 24 ore”. Sorvoliamo sull’eccesso di ottimismo. Di vero c’è che la posizione degli Stati Uniti muterebbe radicalmente: fine del sostegno all’Ucraina di Volodymyr Zelensky e apertura di una trattativa di pace con Vladimir Putin. Quale che sia la nostra opinione al riguardo, uno sviluppo del genere porterebbe nel breve termine all’allentamento delle tensioni geopolitiche, a beneficio di un calo dei prezzi energetici. Petrolio e gas costerebbero forse meno di oggi. Messe tutte queste ipotesi sul piatto, il rischio di una Trumpflation appare molto limitato, anche perché l’economia negli Stati Uniti si trova in una fase ciclica espansiva molto matura.

Salgono le probabilità di una recessione nel medio termine, pur restando ad oggi invidiabilmente basse.

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