I dati dell’ufficio statistico federale tedesco Destatis dell’altro ieri sono stati raggelanti: l’inflazione in Germania è salita al 6% annuo a novembre, stando all’indice armonizzato europeo. Mai così alta da inizio anni Ottanta. Anche i tedeschi pagano il boom dei prezzi delle materie prime e, in particolare, del gas. Le bollette stanno schizzando alle stelle, complice un inverno già rivelatosi più rigido della media stagionale. Per il resto, fattori comuni al resto del pianeta stanno gravando sulle loro tasche: colli di bottiglia, ripresa della domanda più veloce dell’offerta, carenza di materie prime.

Il malcontento in Germania è elevato tra le famiglie. Nella storia moderna, mai i tedeschi si erano trovati in preda all’alta inflazione senza combattere. Bisogna risalire all’infausta Repubblica di Weimar nel 1923 per trovare un periodo della loro storia, in cui il boom dei prezzi al consumo fu persino provocato dalle stamperie incontrollate dell’allora Reichsbank. A quel tempo, c’era la necessità di fronteggiare le gigantesche spese di riparazione legate alla sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. Adesso, c’entra l’idea di salvare l’euro da una frantumazione altrimenti inevitabile.

Se la Deutsche Bundesbank oggi potesse manovrare i tassi d’interesse da sola, come quando stampava il marco tedesco, sicuramente li fisserebbe a livelli ben più alti dello zero a cui sono stati portati da anni dalla BCE. Addirittura, sui depositi overnight il tasso applicato da Francoforte è negativo per lo 0,5%. Ciò ha fatto schiantare anche i rendimenti obbligazionari e i tassi applicati dalle banche tedesche ai clienti. Prendendo come riferimento i rendimenti a breve termine dei Bund come tasso di remunerazione del risparmio, otteniamo che esso sia in area -0,75%. Aggiungendovi un’inflazione al 6%, possiamo affermare che allo stato attuale i risparmi dei tedeschi siano remunerati in termini reali a circa il -7%.

Euro tenuto in vita dai risparmi tedeschi “bruciati”

Stiamo dicendo che i tedeschi non solo non ottengono alcun beneficio a risparmiare, anzi ci perdono tantissimo denaro.

A questi ritmi, oltre i due terzi dei loro capitali andrebbe in fumo nel giro di due anni. A inizio anni Ottanta, quando l’inflazione tedesca risultò salita ai livelli attuali, la Bundesbank aveva fissato il tasso di sconto al 7,50%. In altre parole, tendenzialmente i risparmi dei tedeschi erano remunerati nettamente al di sopra dell’inflazione, la quale effettivamente scese fin sottozero verso la fine di quel decennio.

A cosa serve questo sacrificio? A salvare l’euro. Se la BCE alzasse i tassi, oggi come oggi gran parte dell’Eurozona non sarebbe in grado di sostenerli. Paesi indebitati come l’Italia, la Spagna, la stessa Francia non riuscirebbero a rifinanziarsi sui mercati a costi contenuti. Dovrebbero ridurre gli stimoli fiscali a favore delle rispettive economie, mandandole probabilmente in recessione. Un film già visto all’indomani della crisi finanziaria mondiale del 2008-’09. E la crisi dei debiti sovrani che ne seguì fu lì lì per provocare la rottura dell’euro. Stavolta, i tedeschi hanno appreso la lezione, ma si trovano costretti a masticare amaro.

Poche settimane fa, il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, ha annunciato le dimissioni. Un atto dovuto anche al cambio di governo in corso in Germania – egli è stato un protegé della cancelliera Angela Merkel – ma anche alla volontà del responsabile monetario tedesco di non metterci la faccia dinnanzi a quel che sta accadendo. Le famiglie perdono potere d’acquisto e la banca centrale finge che non sia vero o che lo sia solamente per breve tempo. Un ritornello che in America aveva iniziato a stufare, tant’è che il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, questa settimana ha cambiato clamorosamente registro. Nell’Eurozona, però, sarà difficile trovare il giusto equilibrio tra salvaguardia dei risparmi tedeschi da un lato e dei debiti sovrani del Sud dall’altro.

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